8 ½ e la crisi dell'uomo contemporaneo

Quando si vuol riassumere in poche battute la trama di 8 ½, si suole dire che in esso Fellini ha descritto la crisi d'ispirazione che l'ha investito nell'accingersi a realizzare il suo nono film.


E la visione conferma questa descrizione. La pellicola ruota tutta attorno a Guido Anselmi, regista cinematografico in soggiorno presso un lussuoso istituto termale, accompagnato dalla troupe e dalla produzione del film. Attorno a lui s'assiepano poi attrici chiamate per un provino che non si farà mai, giornalisti, critici, fotografi, moglie, amante, amici rincontrati per caso ecc. Il tutto rappresenta in maniera mirabile il mondo del cinema italiano nella sua epoca d'oro, gli anni Sessanta del Novecento.
Guido è in crisi - nei guai, anzi. Ha mobilitato le risorse finanziarie del proprio produttore per un film di cui tiene tutti all'oscuro, perfino sé stesso. Il film non c'è. Ci sono sono soltanto idee sconclusionate a cui non riesce a dare neppure una parvenza di coerenza. Soltanto alla fine della pellicola ammetterà a sé stesso che non c'è nessun film. Guido non ha nulla da dire ("non ho proprio niente da dire," esclama col tono cantilenante d'un monello, "ma voglio dirlo lo stesso.") Prima che giunga alla liberatoria e salutare confessione del proprio vuoto, Guido cerca guida e ispirazione in due autorità "spirituali": la Chiesa cattolica e l'intellighenzia del suo tempo. Ed è nel tratteggiare le figure in cui le due autorità s'incontrano (un cardinale e un celebre critico cinematografico) che Fellini delinea compiutamente, per opposizione, tutta la crisi morale, spirituale ed esistenziale del suo personaggio.

La Chiesa cattolica. L’importanza del cattolicesimo nel film, così come in tutta l’opera di Fellini, è palese. Esso rappresenta la morale – l’unica morale, verrebbe da dire, nota a Guido, quella in cui è stato cresciuto, che ha determinato il suo sistema di valori. Che avrebbe dovuto determinare, in verità. Perché Fellini ci mostra il fallimento della pedagogia cattolica, il suo essersi ridotta proprio a una mera autorità morale che impone ex cathedra la sua visione attraverso punizioni fisiche e violenza psicologica, incapace ormai di far interiorizzare la fede, di proporla come un modo di vivere, e non come incomprensibili e sterili norme imperative di comportamento. E un comportamento che già allora risultava essere non solo in contrasto, ma addirittura alieno alla società, rispondendo alle istanze morali ed esistenziali degli uomini con un linguaggio inefficace e arido, col linguaggio dell’imposizione: madornale sciocchezza cercare d’imporsi autoritativamente in un mondo dove già il culto dell’individuo “libero e autodeterminantesi” andava diffondendosi e trasformandosi nell’arbitrio puerile che determina le menti e gli animi del nostro tempo.


La splendida sequenza riportata rappresenta proprio il distacco, ormai incolmabile, tra la Chiesa cattolica e la vita degli individui, la sua astratta sterilità, l’incapacità d'interpretare la vita, di calarsi in essa. La differenza tra la prorompente vitalità della Saraghina che vive e danza sulla spiaggia e lo spoglio biancore del collegio arredato tetramente e popolato da ecclesiastici tanto fanatici quanto ridicoli nel loro persistente rifiuto della sessualità, è un lucido e inesorabile atto d’accusa nei confronti d’una religione che tale non è più, perché ha abbandonato ogni rapporto coi dubbi e i turbamenti degli uomini (come la stantia riproposizione della misoginia da parte di ecclesiastici effeminati). Si pensi a quando al piccolo Guido, appena entrato nel confessionale, viene domandato, retoricamente e con sdegnato rimprovero, “ma non lo sai che la Saraghina è il diavolo?” Il bambino risponde in tono d’ansiosa vergogna, come a giustificare con l’ignoranza il proprio atto scellerato. Però, benché abbia cercato l’assoluzione (non quella divina, ma quella fin troppo umana del prete), il piccolo Guido torna alla spiaggia per vedere coi suoi occhi quel demonio che lo avevano esortato a rifuggire. La soavità del canto e la dolcezza del sorriso della Saraghina sono la più eloquente risposta ai suoi dubbi.
Eppure Guido continua a cercare conforto e risposte tra gli uomini di chiesa. L’altra sequenza (originata dall’immaginazione, non dalla memoria come la precedente, ma da un’immaginazione che affonda le radici nella concreta esperienza di vita) che affronta direttamente il tema è l’incontro col cardinale nel bagno turco.


Guido si presenta al cardinale umile e turbato, dichiarando la propria infelicità. Il prelato, invece d’interrogarlo sui ciò che lo angoscia, lo rampogna dicendogli che l’uomo non è nato per essere felice. E poi comincia la sequela di citazioni patristiche sulla necessità di rimanere in seno e ubbidienti alla Chiesa per ottenere la salute eterna. Come nella sequenza precedente, alle parole escatologiche del cardinale fa da contraltare quel secolo da cui rifuggire per non precipitare nella tenebra eterna. Fellini ci rappresenta quel mondo di perdizione nella maniera più accattivante possibile. La scena s’apre sull’orchestra che suona una musica suadente, e procede in una carrellata sulla passeggiata, popolata di signori eleganti, sulla quale s’affacciano negozi e imbonitori. Di primo acchito si potrebbe pensare che Fellini voglia sconfessare il cardinale, con la sua predica stanca e fuori tempo sui pericoli del mondo. Cosa c’è di più affascinante e incantevole del passeggio di quella cittadina? Cosa c’è di più affascinante del mondo degli uomini, così ricco di bellezza e varietà? La sequenza si conclude con l’incontro di Guido con la moglie Luisa che bighellona ansiosa, fumando una sigaretta dietro l’altra, curiosando qua e là senza provare alcun interesse. L’inaspettata apparizione di Guido, che la stava seguendo nel suo vagare con un’espressione intenerita, le accende il volto. Ma la gioia dell’incontro e l’illusione d’un nuovo inizio si scontrano presto con la realtà d’una relazione ormai irrimediabilmente compromessa da anni d'incomprensioni, menzogne e tradimenti. Dietro al lustro del mondo si cela il dolore di rapporti umani lacerati (“ma che vuoi insegnare agli atri, tu, che non hai saputo dire niente di vero a chi ti sta accanto, a chi è invecchiata con te!” esclama Luisa, mentre lascia il cinema dove stavano proiettando i provini per il ruolo dell’amante del protagonista, dell’amante di Guido). Non credo, però, che ciò si possa interpretare come un implicito e sottile assenso alla visione esposta dal cardinale. Piuttosto lo vedrei come la denuncia del vuoto valoriale ed esistenziale in cui è smarrito l’uomo contemporaneo. La tensione è, a mio avviso, palese: la tensione tra l’incanto di Fellini (il cui grandissimo talento d'artista riesce a trasmettercelo) per la multiforme varietà del mondo e la mancanza di punti saldi a cui ancorarsi. Ma il giudizio sul distacco della Chiesa dalla vita mi pare inequivocabile.

L’intellettuale. L’altra autorità a cui Guido fa appello è il critico, l’intellettuale di grido del momento. Progressista, profondo e impegnato, il critico con la erre moscia è forse la figura su cui più s’accanisce Fellini in tutto il film. L’impiccagione è il culmine dell’insofferenza felliniana verso gli astrusi vaniloqui, la categorica astrattezza, la lontananza dalla concretezza della vita della sua categoria. Le sue continue esortazioni alla lucidità e alla coerenza, il suo altezzoso sdegno verso le puerilità di Guido, a cui non cela neppure la scarsa considerazione della sua cultura e delle sue capacità, mostrano tutta la vacuità e l’incomprensione delle profonde istanze esistenziali del regista. Quelle che per il critico sono puerilità, sono in realtà manifestazioni della comprensione di Guido della crisi propria e, quindi, di quella dell'uomo contemporaneo. I dubbi di Guido stanno a monte delle ciance progressiste del critico. Critico che addirittura ne fraintende palesemente le intenzioni, come quando lo accusa di connivenza per il modo in cui avrebbe intenzione di rappresentare l’episodio della Saraghina. Come se la critica fosse soltanto quella livorosa e dozzinale, quella fatta dichiarando – strillando la propria avversione. Così che, quando Guido lo fa impiccare nella sala di proiezione, non si riesce a trattenere un agamus Deo gratias! per la giusta fine di quel presuntuoso e vacuo pedante.

La soluzione di Fellini ai dubbi che tormentano la sua vita è tanto ricca d’umanità quanto poco consistente. È la soluzione dell’individuo solo e smarrito che, di fronte alle contraddittorietà e alle difficoltà della vita, decide d’accettarla in blocco per quello che è, esponendosi a critiche o anche a facili ironie. Non è difficile far notare che la richiesta d’essere accettato da parte di chi lo circonda comporta non solo compromessi (quelli a cui tutti sarebbero chiamati, Guido compreso, per convivere con altre persone), ma anche abnegazioni che finiscono per misconoscere le esigenze delle altre individualità, in particolare di quella della moglie. La soluzione proposta è, insomma, una soluzione rischiosa e precaria, foriera di contraddizioni e contrasti. Ma pare davvero l’unica per un uomo che, come il protagonista del film, si trovi in uno stallo esistenziale, privo di qualsivoglia coordinata e riferimenti oggettivi – ancorati, cioè, a qualcosa che vada al di là della propria individualità e della propria esperienza personale. Bisogna uscire da sé, insomma, per incontrare qualcosa che renda la vita meno penosa ed erratica. Il problema è che l’uomo contemporaneo, non appena esce dalla propria individualità, si trova smarrito in mezzo al deserto.

Commenti

Posta un commento

Post più popolari