Il "Mal di Francia": Filippo il Bello, Dante e la fine del Medioevo

Nel XX canto del Purgatorio Dante incontra Ugo Capeto, il fondatore della dinastia capetingia che ai suoi tempi regnava sulla Francia. Siamo nel quarto girone, dov'è punito il peccato dell'avarizia. L'avarizia della Divina Commedia non è l'odierno, gretto attaccamento al denaro. Anticamente il termine aveva lo stesso significato di cupidigia, un'avidità sfrenata di possesso, in genere di beni materiali, ma anche del potere, come nel caso dell'altro celebre personaggio che Dante incontra in questo girone, papa Adriano V
Ugo Capeto traccia la storia della monarchia di Francia nel segno della cupidigia. Orribili sono i misfatti di cui molti sovrani francesi si sono macchiati in preda alla cupidigia: inganni, tradimenti, assassinii, mercimonio della prole, ecc. Tuttavia Ugo Capeto profetizza che il peggio ancora non è ancora stato veduto. L'attuale re di Francia compirà degli atti la cui nefandezza farà impallidire quelli dei suoi già sciagurati antenati (Purgatorio, XX, 85-93):
Perché men paia il mal futuro e 'l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto. 
Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ’l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso. 
Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.
Dante condanna Filippo IV di Francia, detto il Bello - quel "mal di Francia" (Purgatorio, VII, 109) che non viene mai direttamente nominato nella Divina Commedia, chiamato in causa solo con parafrasi - per due orrendi crimini: lo schiaffo di Anagni e l'altrettanto nota soppressione dell'Ordine del Tempio.

Lo schiaffo di Anagni è l'episodio finale della contrapposizione tra il sovrano francese e papa Bonifacio VIII. Si tratta di uno degli episodi più celebri (o famigerati, se preferite) della storia medievale, e il segno inequivocabile del declino dell'autorevolezza del papato sulla cristianità. Le tensioni tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello risalivano all'ultimo decennio del Duecento. Il re di Francia, di fronte alle pressanti necessità economiche generate dalle sue numerose guerre, aveva deciso di tassare i beni della Chiesa sul suolo francese, fino ad allora esentati. Bonifacio VIII s'oppose vigorosamente a quella che considerava un'indebita ingerenza, un abuso di potere del sovrano francese. Nel 1296 promulgò la bolla Clericis laicos, nella quale il papa proibiva al clero di pagare qualsivoglia tassazione imposta dal potere civile senza l'autorizzazione di Roma. Ai laici, invece, che imponevano abusivamente tali tassazioni, il papa minacciava scomuniche o altri gravi provvedimenti come l'interdetto o la deposizione. Il re di Francia non si fece intimidire: bloccò l'uscita dei valori dal regno ed espulse gli intermediari stranieri che raccoglievano le decime da trasferire a Roma. L'efficiente reazione di Filippo il Bello spinse il papa alla conciliazione, che fu raggiunta. Ma si trattò soltanto una tregua. Le posizioni erano chiare: Filippo il Bello rivendicava la piena potestà sul suo regno, non solo nei confronti dell'impero (rex in regno suo est imperator), ma anche dell'autorità ecclesiastica; Bonifacio VIII, invece, seguendo la linea dei grandi papi teocrati medievali, vedeva nella Chiesa un potere superiore a quello di tutti i sovrani laici della cristianità. Le ostilità ripresero nel 1301, a seguito dell'arresto, ordinato da Filippo il Bello, di Bernardo Saisset, l'abate del monastero di Pamiers che Bonifacio VIII aveva fatto vescovo d'una diocesi da lui creata senza consultarsi col re. Saisset fu processato da una corte reale e riconosciuto colpevole di eresia, simonia, tradimento e oltraggio alla persona del monarca. Fu quindi chiesto al papa di destituirlo e di punirlo. Alla notizia del processo e della condanna del Saisset, il papa non solo non assecondò le richieste del re, ma reagì con la bolla Unam Sanctam, l'ultimo e fallimentare tentativo d'imporre l'autorità papale sui sovrani temporali d'Europa. La risposta di Filippo il Bello fu articolata ed efficiente: un'astuta propaganda antipapale, la prima convocazione degli Stati generali, l'attacco diretto alla persona del pontefice. La propaganda antipapale fu portata avanti con una spregiudicatezza tale da giungere a diffondere copie contraffatte di documenti pontificali. Gli Stati generali, convocati il 10 aprile 1302, decretarono la fedeltà di tutte le classi al re, compreso il clero di Francia. Le accuse al papa vennero quindi sostanziate nella richiesta di un concilio che lo deponesse, in quanto eretico e colpevole dell'assassinio del suo predecessore, Celestino V. A questo punto al papa restò soltanto l'arma della scomunica, che già meditava da tempo. Quando si decise a emetterla, Guglielmo di Nogaret, inviato del re di Francia già in Italia per arrestarlo e portarlo in Francia al concilio, si precipitò ad Anagni, dove il papa risiedeva in quel momento. Qui avvenne l'episodio per cui Dante esprime la sua riprovazione. Era lo notte tra il 7 e l'8 settembre 1303. Col favore delle tenebre, aiutato da Sciarra Colonna e dai suoi uomini, Nogaret entrò nel palazzo papale di Anagni, dove trovò, indifeso, il papa, che fu, si dice, malmenato dal Colonna, esponente di spicco di una famiglia aristocratica romana rivale del pontefice. Arrestato dagli uomini di Nogaret, il papa fu liberato dalla popolazione locale, sollevatasi alla notizia dell'oltraggio. Di lì a poco sarebbe tuttavia morto a Roma.
L'omaggio di Edoardo I a Filippo il Bello,
Grandes Chroniques de France, miniate da Jean Fouquet,
1455-1460, Bibliothèque Nationale de France, Parigi.
La distruzione dei Templari è l'altro orribile misfatto per cui Dante condanna Filippo il Bello. 
L'ordine dei Cavalieri del Tempio era stato fondato in Terra Santa nel 1119. Ugo di Payns, che ne fu il fondatore, lo creò per dare protezione ai pellegrini cristiani e, in caso di necessità, per fornire aiuto militare al Re latino di Gerusalemme. Nel 1128 la regola dell'Ordine, d'ispirazione benedettina e alla cui stesura contribuì in maniera decisiva San Bernardo di Chiaravalle, fu approvata al concilio di Troyes. Undici anni dopo, nel 1139, papa Innocenzo II, con la bolla Omne datum optimum, sanciva la totale autonomia dell'Ordine templare dalle gerarchie ecclesiastiche e lo sottometteva alla sola autorità papale. Questi tre avvenimenti: la fondazione in Terra Santa, l'intervento di San Bernardo nella stesura della regola e l'autonomia concessa loro da Innocenzo II ne determinarono la fisionomia e le fortune. Fu un ordine religioso combattente, che si distinse per valore e sacrificio in diverse battaglie in difesa del Santo Sepolcro. Allo stesso tempo, però, coprì prima la Palestina e poi l'Europa di una rete di case e commende che avevano funzioni d'accoglienza e ospedaliere, alle quali erano inoltre associate estese proprietà fondiarie e ingenti risorse finanziarie. L'Ordine fu popolarissimo anche tra la gente comune. Innocenzo II nella bolla del 1139 aveva concesso loro di costruire cappelle private e avere propri cappellani. Presto queste strutture si aprirono al pubblico, attirando i fedeli dei circondari e sottraendo alle parrocchie le anime e le corrispondenti elemosine. Gli asti e le invidie delle gerarchie ecclesiastiche, che già erano nati all'indomani dell'autonomia concessa all'Ordine da Innocenzo II, andarono moltiplicandosi nel corso del tempo. Col nuovo secolo, cominciarono ad avere anche i primi, gravi problemi col potere temporale. Nel 1228, dopo averlo accolto in Terra Sante, i Templari voltarono le spalle a Federico II, quando giunse in Palestina la notizia che il papa, Gregorio IX, l'anno precedente l'aveva scomunicato per il procrastinare della crociata. L'ostilità montò l'anno successivo, quando l'imperatore firmò un trattato di pace con il sultano al-Kāmil, nel quale vi erano clausole che limitavano l'azione dei Templari in Terra Santa. In questo primo scontro col potere temporale i Templari se la cavarono, visto il destino che li attendeva all'inizio del secolo successivo, a buon mercato. Federico II si limitò a scacciarli dalla Sicilia, ma il potere e il prestigio dell'Ordine nel resto dell'Europa rimase immutato. Alla fine del secolo, in una temperie politica e sociale ormai mutata, furono presi di mira da Filippo il Bello. Il re di Francia voleva appropriarsi dei cospicui beni dell'Ordine, col quale, tra l'altro, era fortemente indebitato. Violando i limiti giurisdizionali del suo potere (i Templari. come abbiamo visto, erano soggetti soltanto al papa), Filippo il Bello imbastì un processo farsa nei loro confronti e, quel ch'è peggio, nel 1307 ne fece arrestare i membri presenti a Parigi, tra cui il Gran Maestro Jacques de Molay. Torturati, confessarono gli orridi crimini di cui erano stati accusati e furono condannati a morto. Jacques de Molay finì i suoi giorni sul rogo nel 1314, due anni dopo che papa Clemente V, sottomesso al re di Francia, aveva decretato la soppressione dell'Ordine al concilio di Vienne. Nel breve volgere di tre lustri Filippo il Bello aveva umiliato e sottomesso il papato ai suoi voleri e aveva distrutto uno degli ordini religiosi più illustri e potenti della cristianità.
San Giovanni Evangelista a Patmos scrive l'Apocalisse,
Libro d'Ore di Étienne Chevalier, miniato da Jean Fouquet,
1452-1460, Museo Condé, Chantilly.
Perché Dante riprovò così tanto le azioni di Filippo il Bello, fino a identificarlo, nel XXXII canto del Purgatorio, col gigante che fornica con la "puttana sciolta", la meretrix magna dell'Apocalisse? Il giudizio dantesco della lotta del re di Francia con Bonifacio VIII può, a uno sguardo superficiale, essere addirittura sorprendente. Dante che difende il suo più acerrimo nemico, colui che ne ha causato l'esilio da Firenze! Dante, tuttavia, non difende l'uomo Bonifacio VIII, Dante difende il papa come successore e vicario di Cristo, distinguendo la carica (la massima della cristianità) dalla persona che la ricopre. Per questo la violenza degli sgherri di Filippo il Bello è la peggiore di tutte: l'umiliazione, anche fisica, del papa, è l'umiliazione di Cristo stesso. 
C'è anche un altro aspetto dell'oltraggio di Anagni che indigna Dante: la monarchia francese non solo ha travalicato il limiti che separano il potere temporale da quello spirituale, ma è un agente di dissoluzione dello stesso potere temporale. Tutte le sue azioni sono volte al consolidamento del proprio interesse particolare in opposizione all'autorità imperiale, la quale, per il bene della cristianità, dovrebbe sola detenere il potere temporale in Europa. 
Lo stesso spirito di prevaricazione anima la distruzione dell'Ordine Templare. Filippo il Bello travalica ancora una volta i suoi limiti e s'impadronisce con inaudita violenza (violenza al diritto e violenza alle persone) delle ricchezze dei Templari. A spingerlo a tali nefandezze è, come abbiamo visto, la cupidigia. Tale cupidigia, però, non è propria solo del re di Francia. È la cupidigia della società mercantile, di quella borghesia di cui il Filippo il Bello si è circondato per mettere in atto i suoi propositi di dominio. È la cupidigia di quella "gente nuova" il cui unico interesse sono i "sùbiti guadagni" (Inferno, XVI, 73), dimentica di tutte le virtù del tempo antico. Si tratta di uno dei temi più cari e più dolorosi per Dante, che riaffiora spesso nella Divina Commedia. Uno dei brani sicuramente più celebri lo troviamo nel XIV canto del Purgatorio, nel quale Guido del Duca esalta le virtù delle passate generazioni in opposizione ai vizi che contraddistinguono gli uomini ai tempi del poeta.

Nell'approfondire gli argomenti di questo articolo mi sono imbattuto nella voce Filippo IV re di Francia detto il Bello dell'Enciclopedia Dantesca Treccani, scritta da  Simonetta Saffiotti Bernardi. Devo ammettere che il suo contenuto mi ha sorpreso. Mi aspettavo una voce enciclopedica che illustrasse sia la figura di Filippo il Bello come emerge dalla ricerca storica, sia l'immagine che Dante ne dà nella sua opera, con un'analisi sommaria delle motivazioni. Queste notizie, in parte, ci sono, ma, allo stesso tempo, la voce è impostata quasi come un'apologia del re di Francia e una critica alla presunta ostilità preconcetta di Dante nei suoi confronti. Si prenda, come esempio, il seguente passo:
Tutta la politica di F. infatti dev'essere considerata in funzione della formazione e del rafforzamento dello stato nazionale e della presa di coscienza da parte del re che tale organismo non poteva essere valido se non fosse stato garantito da una forza direttiva libera da qualsiasi vincolo esterno che potesse minarne la libertà di azione. E tutto questo D. non ha compreso: egli era sostanzialmente un uomo del suo tempo, legato a determinati schemi, incentrati nella compresenza di due grandi autorità, il Papato e l'Impero, dalla cui pacifica convivenza o dalla cui lotta potevano essere mutuati i destini di tutti gli uomini. Non dà importanza alla nuova entità che si va affermando, prima in Inghilterra poi in Francia, dello stato nazionale; tratta in effetti dei singoli re, ma senza dar loro un particolare rilievo, considerandoli non diversamente dai vari signori locali.
Dante, chiuso negli stantii schemi mentali del suo tempo non avrebbe compreso l'opera gravida, verrebbe da dire, di avvenire portata avanti da Filippo il Bello. Non si sarebbe reso conto del nuovo che stava avanzando in Francia e in Inghilterra, non avrebbe capito che stava giungendo l'ora degli Stati nazionali. Più avanti il tono apologetico (mi perdonerete, ma non so come altro chiamarlo) è ancora più esplicito: "Questa politica di F., senz'altro giustificata anzi vantaggiosa per gl'interessi della Francia, è giudicata da D. con indubbia mancanza di obiettività e di comprensione." Dante, accecato dai suoi pregiudizi, dall'ideologia astratta dei due poteri come guida del mondo, non sarebbe stato in grado di valutare i legittimi interessi della Francia, ottimamente perseguiti da Filippo il Bello. Ora, questi giudizi rivelano la visione che sta alla base di tanta ricerca storiografica. Dante non è obiettivo né comprensivo perché ha voltato le spalle allo svolgersi della storia, perché non ha colto la direzione verso cui s'incamminava la Francia e l'Europa. La formazione degli Stati nazionali era non solo inevitabile, ma anche legittima. Filippo il Bello, artefice (o, magari, strumento?) del cammino della storia è, invece, legittimato nelle sue azioni, indipendentemente dalla valutazione politica, giuridica e morale che si possa darne. La storia lo ha giustificato, perché la storia egli ha seguito e servito. La storia che, alla fine dei conti, si giustifica da sé, perché ci ha portati all'età presente, età dalla quale guardiamo il passato con tracotante condiscendenza. 
Ora, da una tale posizione non si comprendono certo i motivi per cui Dante giudica e condanna la Filippo il Bello. Come ho scritto nell'articolo dedicato all'ordinamento dell'Inferno, Dante si appella a strutture sovrasensibili, a ciò che non muta, che non è soggetto a generazione e corruzione. In una parola, all'elemento eterno del cosmo. E in questo elemento eterno rientrano sia i valori morali sia l'ordinamento politico della società, che per Dante non è un fatto accidentale o legato a contingenze storiche, ma parte appunto da un cosmo ordinato dalla Luce divina. L’universo di Dante (e quello di tutte le culture che non hanno misconosciuto e negato l’esistenza di ciò che non può essere afferrato coi sensi, gli unici organi conoscitivi ammessi dagli uomini moderni) si poggia su fondamenti inalterabili, sulla natura naturans, mentre gli uomini moderni sono in balia della natura naturata, cioè di quei fenomeni che non hanno in sé la loro ragion d’essere e il cui appigliarvisi porta solo alla rovina. Cercare di comprendere o, peggio, di giudicare Dante partendo dal punto di vista del divenire di cui noi moderni siamo prigionieri, è cosa inutile e oziosa, un esercizio intellettualistico da cui traspare soltanto la nostra cieca superbia.
Il corteo funebreLibro d'Ore di Étienne Chevalier,
miniato da Jean Fouquet, 1452-1460, Museo Condé, Chantilly.
Eccoci giunti alla parte finale dell'articolo, dedicata alla fine del Medioevo. Credo che parlare di fine del Medioevo all'inizio del Trecento possa fare, e comprensibilmente, storcere il naso. Fin dalle scuole primarie ci è stato insegnato che il Medioevo finisce con la scoperta dell'America. Poi, proseguendo gli studi, siamo venuti a conoscenza che altre date sono state proposte: la Caduta di Costantinopoli (1453), l'avvio della Riforma protestante (1517), la pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium di Copernico (1543), ecc. Dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento, insomma. Infine, ci è stato insegnato che le epoche non finiscono il tal giorno e alla tal ora, come una lezione, ma che certi tratti "vecchi" si mantengono più o meno a lungo accanto a quelli "nuovi", fin quando del vecchio mondo nel nuovo non sarà rimasto più nulla. Guardando alle cose da questo punto di vista, certi tratti del Medioevo restano, come alcuni storici hanno fatto notare, fino alla Rivoluzione francese. Cos'è, allora, quest'idea che il Medioevo finisca all'inizio del Trecento, con le azioni compiute da Filippo il Bello?
Ricapitoliamo i fatti che abbiamo visto sopra. L'oltraggio di Anagni, con la sconfitta (e la rapida morte) di Bonifacio VIII, e la cattività Avignonese, con l'elezione di Clemente V, furono il trionfo di Filippo il Bello. Il re di Francia non solo aveva vinto e umiliato Bonifacio VIII, ma la Chiesa tutta, ridotta in suo potere con l'elezione un pontefice francese e col trasferimento della sede papale ad Avignone, in terra provenzale. Allo stesso tempo aveva consolidato il suo potere sul territorio francese, facendone il regno più potente d'Europa, tanto potente da essere ormai un ostacolo a qualunque sogno imperiale, che peraltro trovava intralci ovunque (basta pensare alla discesa in Italia di Enrico VII del Lussemburgo, l'Arrigo VII di Dante). Dunque già all'inizio del Trecento la visione universalistica dei due poteri, spirituale e temporale, che reggessero insieme la cristianità era ormai tramontata. 
René Guénon parte da questi dati storici per affermare che il Medioevo è finito proprio coi crimini di Filippo il Bello. Vediamo nel dettaglio la sua posizione.
Il vero Medioevo per noi si svolge fra il regno di Carlo Magno e il principio del XIV secolo. Con quest'ultima data s'inizia una nuova decadenza che, attraverso diverse tappe, andrà sempre più accentuandosi fino ad oggi. Il vero punto di partenza della crisi moderna è questo; è l'inizio della disgregazione della "Cristianità", essenzialmente identica alla civiltà occidentale del Medioevo; è l'origine del costituirsi delle "nazionalità" materializzate e centralistiche, parallelo alla fine del regime feudale, che a questa stessa "Cristianità" era strettamente connesso (La crisi del mondo moderno, p. 59).
Così scrive nel primo capitolo ("L'età oscura") di uno dei suoi libri più famosi, La crisi del mondo moderno. Si tratta di un passo sorprendente, e non soltanto per la determinazione della fine dell'evo di Mezzo, oggetto principale di questo articolo. Anzitutto Guénon scrive il "vero Medioevo": soltanto per un periodo ben determinato, da Carlo Magno a Filippo il Bello, si può parlare di Medioevo. Non siamo di fronte, dunque, a quel concetto dai contenuti ambigui e i contorni mal definiti (al che uno si potrebbe domandare: ma che concetto sarebbe, affatto chiaro e distinto com'è?), come oggi viene ritenuto nella ricerca storiografica. Una storica del Medioevo, Gabriella Piccinni, nel suo manuale I mille anni del Medioevo, scrive al riguardo: 
Non c'è studioso serio che dinanzi al concetto di Medioevo non reagisca ponendo immediatamente la domanda: quale?, poiché - anche in virtù dei mille anni ai quali si riferisce, ma non solamente per questo - esiste un Medioevo barbarico, ma ce n'è anche uno di raffinata cultura; uno rurale e uno cittadino; uno illetterato e uno colto; un Medioevo superstizioso e uno razionalista; un Medioevo guerriero e uno disarmato e mercantile... (I mille anni del Medioevo, p. 4). 
Ecco, per Guénon - che certo non si sarebbe risentito dal non essere ascritto nella categoria degli "studiosi seri" dal punto di vista accademico - non ci sono dubbi: il Medioevo comincia con Carlo Magno e finisce con l'opera distruttrice di Filippo il Bello, e questo perché esso fa tutt'uno con quella cristianità, ossia col cattolicesimo, che permeò tutti gli ambiti dell'esistenza dell'uomo europeo solo durante quel periodo. Come si evincerà dalla breve citazione, Guénon ha un'opinione positiva del Medioevo. Non la si confonda, però, con la passione che ne ebbero i romantici. La rivalutazione romantica del Medioevo era anzitutto una delle forme della loro ribellione al Settecento e al classicismo in genere. I romantici amarono il Medioevo perché lo ritennero all'opposto di quello contro cui si rivoltavano: un'epoca di passioni e d'immaginazione, in contrapposizione alla prosaica razionalità illuministica e al freddo e materialistico calcolare della borghesia, nella loro epoca in inarrestabile ascesa. Questa visione non ha nulla a che vedere col giudizio guénoniano. Guénon valuta positivamente il Medioevo perché in esso la società europea era stata, per l'ultima volta, organizzata in maniera normale. Il Medioevo era infatti sorto dopo la faticosa dissoluzione del mondo antico e la restaurazione di quello che Guénon chiama appunto ordine normale. È un concetto chiave: per Guénon normale è quell'ordine sociale che trae fondamento e giustificazione da principi trascendenti. Tutte le civiltà che così fondate sono normali, mentre le altre costituiscono una deviazione. In Occidente la deviazione, che già si era vista nell'antichità greco-romana, è ripartita con la fine del Medioevo e avanza inarrestabile a una velocità sempre maggiore, e, quel ch'è peggio, si è diffusa ormai in tutti gli angoli del pianeta. C'è da sottolineare però un punto: quella che è deviazione dal punto di vista dell'organizzazione sociale, non lo è da quello metafisico. Guénon si rifà infatti alla teoria ciclica indù, l'idea, cioè, che la vita dell'umanità della terra sia scandita in quattro epoche "che segnano altrettante fasi di oscuramento della spiritualità primordiale" (La crisi del mondo moderno, p. 51). Adesso ci troviamo nella fase estrema dell'ultima epoca,il Kali-Yuga, l'Età oscura o del ferro, com'era chiamata nell'antichità classica. Giunti al punto più basso, quello più lontano dal Principio (sia in senso ontologico sia in senso cronologico), avverrà quel rovesciamento che riporterà gli uomini nell'Età dell'Oro, o Satya-Yuga, dando origine a un nuovo ciclo delle vicende umane. 
Prima di procedere con l'analisi dell'ordine sociale normale e dell'esempio che ne fu l'Europa medievale, si rende necessaria una premessa, altrimenti da chi non siano familiari le opere di Guénon questi potrebbe essere scambiato con un proselitista dell'induismo (Guénon, in realtà, si convertì all'Islam in età adulta). Guénon semplicemente ritiene le dottrine indù le più adeguate a esporre agli occidentali le verità di quella che chiama la Tradizione primordiale. Tutte le civiltà normali, infatti, discendono in maniera più o meno diretta dalla Tradizione primordiale, di cui non sono che un adattamento determinato dalle condizioni contingenti dei tempi e dei luoghi, condizioni che vanno via via peggiorando, con un allontanamento progressivo dalla "vita spirituale" a vantaggio della "vita materiale", secondo la discesa determinata dalle leggi cicliche. La Tradizione primordiale, per sgombrare il campo da equivoci, non s'inventò quelle verità, ma le ricevette dall'alto, il che significa che hanno un'origine sovrumana, trascendente (la versione che più ci è nota di questo concetto è quella biblica di rivelazione). Si tratta del Perennialismo o philosophia perrennis, di cui Guénon è uno dei principali esponenti. Per ovvie ragioni non posso approfondire l'argomento. La digressione mi è parsa tuttavia necessaria per la comprensione degli argomenti trattati in questa parte dell'articolo.
La PentecosteLibro d'Ore di Étienne Chevalier
miniato da Jean Fouquet, 1452-1460, Museo Condé, Chantilly.
Quando ancora l'umanità era prossima al principio del suo attuale ciclo d'esistenza, gli uomini appartenevano tutti a una sola casta ed erano caratterizzati "da un grado spirituale elevatissimo, oggi assolutamente eccezionale, ma che allora era comune a tutti gli uomini, i quali lo possedevano in certo modo spontaneamente; tale grado è al di sopra delle quattro caste che si sono costituite in seguito e fra cui sono state divise le diverse funzioni sociali" (Autorità spirituale e potere temporale, pp. 20-21). Col progressivo allontanarsi dal Principio si giunge dunque a un punto in cui si rende necessaria la ripartizione delle varie attività umane e s'istituiscono le caste. In India, com'è noto, sono quattro: i brahmani, gli kshatriya, i vaishya e gli shudra (corrispondenti, nell'Europa medievale, al clero, i nobili, il terzo stato e i servi della gleba). Tra le ultime due caste sono suddivisi i compiti lavorativi: i vaishya sono agricoltori e mercanti e gli shudra i servitori, il cui lavoro è caratterizzato dall'uso della forza fisica. Nelle prime due, invece, stanno le leve del potere: gli kshatriya sono i nobili, i guerrieri, coloro che detengono il potere temporale, le funzioni di governo e di amministrazione, funzioni che implicano anche la possibilità d'esercitare la coercizione sugli altri; nei brahmani, invece, sta il potere spirituale, che si manifesta nella "conservazione e la trasmissione della dottrina tradizionale, nella quale ogni organizzazione sociale regolare trova i suoi principi e i suoi fondamenti", per cui "la vera funzione del sacerdozio è quindi, innanzitutto, una funzione di conoscenza e d'insegnamento" (Autorità spirituale e potere temporale, p. 35 e p.36). Poco sopra ho parlato di potere per entrambe le caste. In realtà Guénon preferisce usare il termine potere soltanto per la funzione degli kshatriya, mentre preferisce il termine autorità per definire la funzione dei brahmani. Il potere, infatti, richiama immediatamente l'idea di forza fisica, di coercizione, mentre l'autorità spirituale non ne fa uso. L'unica sua forza è la forza della verità, e il suo potere è di natura intellettuale, che nulla ha a che fare col potere esteriore degli kshatriya che si esercita con la coercizione, sia delle leggi sia della forza fisica. L'autorità spirituale s'impone in virtù della sua conoscenza, non ha bisogno d'altro. Per questo sono i brahmani a concedere il potere sulle cose di queste mondo agli kshatriya, è da loro che ne proviene la legittimità. In cambio, i brahmani ne ricevono protezione, affinché possano perpetuare le loro attività di conoscenza e d'insegnamento. I brahmani sono, per usare un esempio aristotelico che Guénon ripete sovente nelle sue opere, il motore immobile della società, "il principio immediato di ogni potere visibile; questa autorità è come il perno intorno al quale ruotano tutte le cose contingenti, l'asse fisso intorno a cui il mondo compie la sua rivoluzione, il polo o il centro immutabile che dirige e regola il movimento cosmico senza parteciparvi" (Autorità spirituale e potere temporale, p. 76). Per fare a un esempio familiare a noi occidentali, basti pensare all'unzione dei re di Francia nella cattedrale di Reims durante il Medioevo, ma soprattutto all'incoronazione a imperatore di Carlo Magno per mano Leone III, avvenuta a Roma nella basilica di San Pietro il giorno di Natale dell'800, dal profondo valore sacrale. Mille anni dopo, un altro imperatore, Napoleone I, avrebbe voluto ripetere la cerimonia dell'incoronazione, sempre per mano d'un papa, Pio VII, questa volta nella cattedrale di Notre-Dame, a Parigi. Ma si sarebbe trattato d'una mera cerimonia politica, voluta da un uomo che usava simboli vecchi per veicolare concetti nuovi, priva di qualunque valore rituale e, perciò, sacrale. Tutti ne erano consapevoli, e Napoleone la suggellò ponendosi la corona da solo sulla testa. Il papa non era che una comparsa, costretto dalle circostanze, e la messa una spettacolo. La Rivoluzione francese, di cui Napoleone era il figlio, aveva spazzato via quei pochi resti di sacralità che ancora rimanevano nello spazio pubblico europeo. Ma torniamo all'età di Mezzo.
Presso quasi tutti i popoli, in epoche diverse, e sempre più spesso via via che ci avviciniamo alla nostra epoca, i detentori del potere temporale [...] hanno tentato di rendersi indipendenti da ogni autorità superiore, sostenendo di trarre solo da sé il proprio potere, e di separare completamente lo spirituale dal temporale, quando non addirittura di sottomettere il primo al secondo (Autorità spirituale e potere temporale, p. 85).
È la rivolta degli kshatriya, la rivolta di coloro che, pur detenendo tutto il potere esteriore, il potere sul mondo, nelle loro mani, non riescono più ad accettare di essere subordinati a un altro ordine, dal quale tuttavia ricevono l'intera legittimità di quel potere che esercitano. È la negazione, spinta da superbia luciferina, di qualunque potere a loro superiore. Essi stessi vogliono essere il fondamento del loro potere. Ma s'ingannano grandemente, poiché la loro funzione e le loro conoscenze appartengono al mondo del divenire, che non ha in sé il fondamento del proprio mutare. Gli kshatriya sono vincolati all'esteriorità, ambito in cui l'azione, sia essa politica o militare, è completamente confinata. L'interiorità è la porta d'accesso alla conoscenza dei principi trascendenti, e questo è il dominio dei brahmani. Gli kshatriya ricevono da questi principi, cui non hanno accesso diretto, assieme alla legittimità del potere che esercitano il fondamento delle loro azioni. Quando neghino questi principi, le loro azioni perdono via via di coerenza, escono dalla retta via, non sono più incluse in quell'ordine cui soltanto il discendere da principi trascendenti permette di partecipare. Perdere la legittimità trascendente del potere significa, alla lunga, farsi strappare di mano il potere da un'altra casta:
Infatti, quando venga negato il principio stesso della gerarchia, non si vede come una qualunque casta possa conservare la supremazia sulle altre, né, peraltro, in nome di cosa possa pretendere d'imporla; chiunque, in queste condizioni, può pensare di avere gli stessi diritti al potere di chiunque altro, non appena disponga materialmente della forza necessaria per impadronirsene e per esercitarlo di fatto; e se si tratta di una semplice questione di forza materiale, non è forse evidente che questa debba trovarsi in sommo grado presso gli elementi che sono al tempo stesso i più lontani, per le loro funzioni, da ogni preoccupazione che tocchi, anche indirettamente, la spiritualità? (Autorità spirituale e potere temporale, pp. 90-91).
In Europa è accaduto proprio questo: la rivolta iniziata con Filippo il Bello ha portato al definitivo rovesciamento della nobiltà guerriera, avvenuto cinque secoli più tardi con la Rivoluzione francese. E il gesto di Napoleone di porsi la corona da solo sulla testa non suggellava forse la negazione di qualunque origine trascendente del potere, trovando questo un consapevole, ma pseudo-fondamento soltanto nelle sue azioni?
La CrocifissioneLibro d'Ore di Étienne Chevalier
miniato da Jean Fouquet, 1452-1460, Museo Condé, Chantilly.
Vediamo ora più da vicino come Guénon ha interpretato le azioni di Filippo il Bello. 
Il peggiore dei crimini commessi da Filippo il Bello non è, per Guénon, l'oltraggio di Anagni e l'asservimento del papato, ma la distruzione dell'Ordine dei Templari. Perché la soppressione di uno dei tanti ordini religiosi della Cristianità dell'epoca sarebbe più grave dell'oltraggiare e soggiogare il papato? Perché per Guénon l'Ordine dei Cavalieri del Tempio di Salomone non era un ordine fra i tanti: erano l'organizzazione in cui era depositata la sapienza esoterica presente nella Cristianità. Con sapienza esoterica Guénon intende quelle conoscenze tradizionali (metafisiche e cosmologiche, per esempio) il cui apprendimento richiede un'iniziazione e il cammino spirituale che essa comporta. Conoscenze profonde e interiori, trasmesse oralmente, che si accompagnano alle conoscenze essoteriche, scritte, di tipo esteriore e pubblico (Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, cap. 9). Le conoscenze essoteriche tradizionali dell'Occidente medievale erano, ovviamente, quelle religiose nel loro complesso.
Come abbiamo visto sopra, nel brevissimo excursus sulla storia dell'Ordine, i Templari nacquero in Palestina allo scopo di soccorrere e difendere i pellegrini e di fornire assistenza militare al re latino di Gerusalemme. Furono perciò chiamati anche Custodi della Terra Santa. Ora, sebbene questo titolo si addicesse benissimo alla funzione pubblica dei Cavalieri Templari, per Guénon non si tratta che del significato esteriore dell'espressione (ma il fatto che fosse esteriore non significa affatto che fosse falso. Per Guénon tutte le cose hanno o possono avere molteplici significati, a seconda del punto di vista da cui vengano considerate). Anzitutto bisogna analizzare il significato di Terra Santa. Un occidentale la identifica subito con la Palestina, la terra che vide le gesta di Gesù Cristo. Guénon, tuttavia, fa notare che anche altre organizzazioni orientali dell'epoca, come i Drusi o gli Assassini, avevano l'appellativo di Custodi della Terra Santa. Ovviamente queste, non essendo cristiane, non identificavano la Terra Santa con la Palestina. Che cosa significa questa apparente discrepanza? Che l'espressione Terra Santa indica "un centro spirituale la cui localizzazione in una regione determinata può d'altronde, a seconda dei casi, venir intesa letteralmente o simbolicamente" (I Custodi della Terra Santa, in Simboli della Scienza Sacra, p. 81). Questi centri spirituali sono il cuore di una determinata tradizione particolare, sono il luogo simbolico che spesso corrisponde con un luogo reale (si pensi al Tempio di Salomone) in cui si ha "la presenza reale", l'epifania della divinità.
Se lo stesso simbolismo si applica uniformemente a tutte le «Terre sante», la ragione è che tali centri spirituali hanno tutti una analoga costituzione, spesso fin nei minimi particolari, poiché sono altrettante immagini di un medesimo centro unico e supremo, che solo è il vero «Centro del Mondo», ma di cui assumono gli attributi partecipando alla sua natura mediante una comunicazione diretta, nella quale risiede l'ortodossia tradizionale, e rappresentandolo effettivamente, in modo più o meno esteriore, in tempi e luoghi determinati. In altri termini, esiste una «Terra santa» per eccellenza, prototipo di tutte le altre, centro spirituale a cui tutti gli altri sono subordinati, sede della tradizione primordiale da cui tutte le tradizioni particolari sono derivate per adattamento a queste o quelle condizioni definite proprie a un popolo o a un'epoca. Questa «Terra santa» per eccellenza, è il «paese supremo», secondo il senso del termine sanscrito Paradesha, di cui i Caldei hanno fatto Pardes e gli Occidentali Paradiso (I Custodi della Terra Santa, cit., p. 84).
Questo per quanto riguarda il concetto di Terra Santa. Qual è la funzione di coloro che ne sono custodi? Guénon ci dice che ne hanno una duplice: ne sono i difensori, tenendo lontano dalla Terra Santa coloro che non hanno le qualificazioni per accedervi; e, allo stesso tempo, sono il tramite tra il centro e l'esterno. Questa funzione di guardiani è, secondo Guénon, prerogativa di un'iniziazione kshatriya, ossia di quella che in Occidente fu l'iniziazione cavalleresca. I Templari, la cui iniziazione era, secondo Guénon, di questo tipo, avevano però la peculiarità di essere guerrieri e monaci a un tempo. Questo significherebbe che furono dei custodi non di un centro spirituale derivato, ma dello stesso Centro supremo, nel quale l'autorità spirituale e il potere temporale non sono separati, ma riuniti perché da esso entrambi discendono. I Templari erano perciò coscienti dell'unità  metafisica che sta al di sotto delle varie forme tradizionali che, agli occhi dei più, sono entità separate e non comunicanti. I Templari, quindi, oltre alla mansione di guardia, intrattenevano le relazioni tra il Centro supremo e l'Occidente. Quando Filippo il Bello li distrusse, i legami spirituali tra il Centro e l'Occidente dapprima traballarono, per poi interrompersi, alcuni secoli dopo, quando gli ultimi supplenti dei Templari, i misteriosi Rosacroce, abbandonarono l'Europa nel corso del Seicento, poiché con la pace di Vestfalia gli ultimi resti della Cristianità medievale vennero sostituiti da entità puramente politiche.
La cupidigia, come abbiamo visto, è indicata da Dante come il vizio che dominava Filippo il Bello in tutte le sue azioni nefande. Ora, Guénon osserva che la cupidigia non è un vizio tipico della casta degli kshatriya. Sono i vaishya, i borghesi in Occidente, che ne sono di solito preda. Questo, per Guénon, ha un duplice significato: anzitutto si tratta della degradazione della monarchia francese, che, perduta la legittimità del potere rivoltandosi contro l'autorità spirituale, tenta di distruggere la nobiltà, ossia il terreno da cui è germogliata; in secondo luogo, è il segno dell'alleanza coi vaishya, col Terzo stato di Francia, unico modo che i re avessero per soggiogare la nobiltà e assorbirne in sé tutto il potere. Si tratta del processo di centralizzazione che contraddistinse la politica delle monarchie europee, di cui quella francese fu quella più radicale e risoluta. In questo modo, accentrando a sé tutto il potere temporale, i re di Francia vollero prendere il posto sia dell'autorità spirituale sia del potere temporale legittimamente costituito in maniera diffusa nella società feudale. Così facendo, rinnegando tutto quello che ne determinava la legittimità e la posizione all'interno dell'organizzazione sociale, i re di Francia si scavarono la fossa da soli, preparando la strada per l'ascesa della borghesia con la Rivoluzione del 1789.
Il compianto sul Cristo mortoLibro d'Ore di Étienne Chevalier
miniato da Jean Fouquet, 1452-1460, Museo Condé, Chantilly.
L'opera di centralizzazione ebbe come conseguenza più evidente la formazione degli Stati nazionali. Questi stati erano e sono uniti sulla base del principio di nazionalità. Per Guénon si tratta di una mera unificazione del tutto esteriore, in cui manca il vero elemento unitario, che può darlo soltanto la spiritualità. Siamo di fronte all'opposizione di un'unità falsa, di natura materiale, e di un'unità vera, fondata su principi metafisici, che può essere garantita soltanto dall'autorità spirituale. Le conseguenze, secondo Guénon, sono sotto gli occhi di tutti. Private dell'elemento trascendente, le nazioni europee si sono gettate nella pura materialità, dando l'avvio a una folle corsa per il potere e il predominio che nel corso dei secoli s'è sempre più accelerata, insanguinando la storia europea e mondiale alla maniera che tutti conosciamo. Le stesse guerre, dopo la Rivoluzione francese e l'Impero napoleonico, sono diventate guerre di "nazioni armate", senza più distinzioni tra le varie classi sociali con la coscrizione generale, né in qualche maniera temperate nella loro sempre crescente violenza e crudeltà. Si potrebbe anche aggiungere che il passo successivo è stata la Seconda guerra mondiale e il concetto di guerra totale che in essa è stato introdotto (e che solo il terrore generato dalle armi atomiche pare aver tenuto, almeno fino a ora, a bada). 
L'ultimo tappa del ciclo discendente è la presa del potere da parte degli shudra. Guénon, nell'epoca in cui scrisse, credeva che ciò sarebbe potuto accadere attraverso il trionfo del bolscevismo. Sappiamo tutti che il comunismo sovietico nulla poté, alla lunga, contro l'efficienza materialistica del capitalismo estremo americano. Viene da chiedersi, tuttavia, se, nella prospettiva tradizionale illustrata da Guénon, stia accadendo o sia già accaduto lo stesso, con la "confusione delle caste" che si manifesta nella riduzione delle vite a un individualismo esasperato che, invece di esaltare il singolo e le sue peculiarità, come da ogni parte si sente millantare, tende a uniformarlo verso il basso, verso l'elemento più "animalesco" e, perciò, meno distinto, meno spirituale, poiché tutto ciò che distingue, tutto ciò che ha un contenuto positivo viene dallo spirito e non dalla materia. Ma questa è materia per un altro articolo.


Opere citate o utilizzate per la stesura dell'articolo:

- Enciclopedia Dantesca Treccani, consultabile a questo indirizzo;
- Enciclopedia dei Papi Treccani, consultabile a questo indirizzo;
- Dante Alighieri:
  - La Divina Commedia, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano 1994; 
  - La Divina Commedia, a cura di Tommaso Di Salvo, Zanichelli, Bologna 1975;
- Federiciana Treccani, consultabile a questo indirizzo;
- René Guénon:
  - Autorità spirituale e potere temporale, trad. it. Adelphi, Milano 2014;
  - Forme tradizionali e cicli cosmici, trad. it. Edizioni Mediterranee, Roma 1974;
  - Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, trad. it. Adelphi, Milano 1989;
  - La crisi del mondo moderno, trad. it. Edizioni Mediterranee, Roma 2015;
  - L'esoterismo di Dante, trad. it Adelphi, Milano 2001;
  - Simboli della Scienza sacra, trad. it Adelphi, Milano 1975.
- Gabriella Piccinni, I mille anni del Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 2007.

Le riproduzioni delle miniature di Jean Fouquet sono state tratte dagli articoli Filippo IV di Francia (la prima) e Livre d'heures d'Étienne Chevalier (le successive) di Wikipedia.

Commenti

  1. Gentile "Homo errans" (ma è possibile sapere il nome?), ho molto apprezzato il suo ottimo commento all'imbarazzante articolo del 1970 di Simonetta Berardi su Filippo IV per l'Enciclopedia dantesca. Non solo sottoscrivo interamente la sua critica, ma io stesso ho aggiunto ulteriori considerazioni di critica alla totale miopia storiografica della Berardi, nel considerare Dante "anacronistico" e il criminale Filippo IV (autore dello sterminio di tutti i Templari, al solo scopo di impadronirsi dei loro averi) invece "moderno" per avere creato le strutture amministrative di un vero stato nazionale. Potrà trovare qui https://www.academia.edu/44454733/Il_VII_canto_dellInferno_della_Divina_Commedia_e_la_soluzione_filologico_strutturale_e_matematica_dellenigma_plurisecolare_di_Pape_Sat%C3%A0n_pape_Sat%C3%A0n_aleppe_
    nell'ultima postilla a p. 23, un'analisi a sostegno delle sacrosante ragioni di Dante (che non fu affatto anacronistico nell'opporsi a quel criminale!) e contro la superficialità della Berardi. Io avrei voluto citare anche lei, ma non avendo un nome e un riferimento (oltre ad "homo errans") non ho potuto farlo. Grazie comunque per le puntualissime osservazioni.
    Cordialmente
    AM

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    1. Gentile Alberto Miatello, la ringrazio per il commento e per le parole di apprezzamento. Nell’affermazione della Bernardi sul presunto anacronismo di Dante – che come lei ha notato nel suo articolo è una delle tante manifestazioni di certa miopia presente negli studi accademici – vi si può rintracciare quella visione storico-progressiva (una sorta di miscuglio di Hegel e della visione progressivo-stadiale tipica del positivismo ottocentesco) che individua nel futuro il metro di giudizio per le vicende passate. In questo caso la progressiva affermazione degli Stati nazionali giustificherebbe le orribili e criminali (e tali proprio secondo il diritto dell’epoca) azioni di Filippo il Bello, che non si fermò di fronte a nulla per la sua smodata avidità, mentre condannerebbe la posizione di Dante, legata al “passato” del cosiddetto “universalismo medievale”. Nella postilla al suo articolo, lei fa giustamente notare che le azioni di Filippo il Bello possono essere avvicinate a taluni dei più orrendi crimini contemporanei. La differenza tra loro, volendo rimanere all’interno dello schema interpretativo adottato dalla Bernardi, starebbe nell’essere queste ultime dalla parte “sbagliata” del divenire progressivo-ascendente della Storia, mentre gli atti di Filippo il Bello avrebbero invece contribuito a questo divenire. Di fronte a questa presunta constatazione, ogni giudizio morale cade, o comunque viene messo in secondo piano dai presunti frutti che avrebbero portato centinaia di anni dopo. Quindi le sofferenze patite dal Gran Maestro de Molay e dai suoi confratelli Templari avrebbero poca importanza, a differenza di quelle patite dai kulaki o dalla popolazione cambogiana durante l’orribile dittatura dei Khmer rossi. Il presunto anacronismo di Dante, poi, è tutto da dimostrare anche rimanendo, come lei giustamente osserva, all’interno della politica dell’epoca. La visione dantesca dei due Soli, del potere temporale e dell’autorità spirituale, è una soluzione proposta proprio a quella situazione di frammentazione disordinata del potere da cui lentamente sarebbero sorti gli Stati nazionali, ma anche al travalicare oltre la propria sfera della Chiesa, autorità spirituale che volle farsi potere coercitivo. Senza contare che Dante non cercava il modello per plasmare il viver civile nella caoticità dell’esperienza sensibile, ma nell’ordine luminoso divino.

      Da ultimo, la questione della mia identità. Lei è il secondo lettore che, seppur per ragioni diverse, si rammarica per la mancanza di un nome in queste pagine. Come ho scritto nella pagina Origini e finalità del sito, ho sostituito di recente il mio nome con lo pseudonimo Viator (che poi, se potessi affrontare la questione, forse tanto “pseudo” non sarebbe). Ho intenzione di tornare, come ho scritto in riposta al commento dell’altro lettore, sul problema dell’anonimato, possibilmente con un articolo apposito. Credo infatti sia un tema che meriti di essere approfondito, poiché porta con sé questioni la cui importanza è di più immediata percezione.

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    2. Gentile Viator,
      molte grazie per la sua articolata e interessante risposta, che ancora una volta mi sento di condividere senza riserve. Una piccola chiosa a proposito del discorso sull’anonimato. Non mi fraintenda. Personalmente non trovo nulla di male nell’anonimato in rete, anzi! Io stesso non di rado sono intervenuto in parecchi siti web in forma anonima, anche perché questo è un modo per tutelare la propria privacy, ed è del tutto comprensibile. Quindi se lei preferisce l’anonimato per me è indifferente, ed è una sua libera e rispettabile scelta (non mi sono affatto “rammaricato”). L’unico problema è che in questo modo però mi è stato impossibile citare il suo pur ottimo commento al tema del rapporto tra Dante e Filippo IV, e l’avrei invece citata insieme al libro del dr. Renato Ariano, che ha scritto un bel saggio “controcorrente” sul legame (totalmente negletto dalla storiografia “ufficiale”) tra Dante e l’ordine dei Templari. Inoltre, io avrei piacere di formare un gruppo di studiosi che – in occasioni delle celebrazioni del 2021 per i 700 anni dalla morte di Dante – propongano in pubblico nuove ricerche ed interpretazioni, contro le FALSIFICAZIONI della storiografia e della critica ufficiali. Ma ovviamente non si potrebbe fare con anonimi.
      Ma veniamo alla sua gradita risposta. Sì, lei ha ragione, quell’impostazione della Berardi riflette i tipici (e obsoleti) schemi “idealistico-marxisti”, (o “post-illuministi” se vogliamo essere più generici) di cui sono incrostati la storiografia e la critica letteraria italiana, e non solo italiana, secondo cui l’umanità progredisce sempre (??), e il periodo medievale sarebbe stato “peggiore” delle epoche successive. Tesi alquanto discutibile, se si pensa che il maggiore conflitto su larga scala dell’epoca medievale, ovvero la guerra dei cent’anni tra inglesi e francesi (1337 – 1453) causò – come riconosciuto da tutti gli storici – solo poche decine di migliaia di vittime, e quasi tutte tra i militari sui campi di battaglia ( peraltro all’epoca si era soliti risparmiare i prigionieri catturati vivi, per negoziarne la liberazione col nemico). (1a parte prosegue)

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  2. (2a parte)
    Per contro, meno di 200 anni dopo, quando “il buio medioevo” era finito da un bel pezzo, la guerra dei 30 anni (1618-1648) causò una carneficina e una devastazione orrenda di tutta l’Europa, con oltre 12 milioni di morti, che rapportati alla popolazione mondiale dell’epoca (di 600 milioni di persone, contro i 7,5 miliardi di oggi) equivarrebbero all’uccisione di 150 milioni di persone oggi! Per non parlare delle vittime della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche nel 1700 e 1800, e delle vittime delle ultime 2 guerre mondiali ( 37 milioni per la prima, e oltre 50 milioni per la seconda). Ma d’altra parte la “miopia” della storiografia e della critica letteraria italiane sono ben note. Io per curiosità sono riuscito a recuperare i miei vecchi testi scolastici di storia del liceo e altri libri di storia. Ebbene, non ce n’è uno che faccia parola dell’orrendo massacro dei Templari, mentre tutti esaltano la figura di Filippo IV, un re considerato “moderno” e innovatore. E tra l’altro, e mi ripeto, è un FALSO storico vergognoso la tesi che Filippo IV avesse “risanato” le finanze dello stato. In realtà le aveva portate alla bancarotta con le sue guerre e i suoi sprechi, e solo con la gigantesca rapina ai danni dei Templari, e con una quantità spaventosa di tasse con cui depredò i sudditi, riuscì a ottenere nuova liquidità per le casse dello stato. Così come è un FALSO storico che la gestione dittatoriale e accentratrice di quel criminale fosse un “progresso” col quale si avviò il superamento del Medioevo. Ripeto quanto già scritto: gli INGLESI già ai primi del 1200 avevano codificato i diritti dei sudditi verso il potere regale nella Magna Charta Libertatum, un monumento giuridico che per la prima volta nella Storia pose i primi limiti all’arbitrio dei re verso i sudditi. E nel 1600 – mentre francesi e tedeschi erano impegnati a scannarsi come al solito – gli inglesi produssero l’Habeas Corpus, altro capolavoro di civiltà giuridica, che pose le basi delle moderne democrazie, e dei diritti inviolabili dei cittadini. Mentre invece i francesi dovettero passare attraverso secoli di monarchie assolute, di tasse che li depredarono, e nel bagno di sangue della Rivoluzione francese di fine ‘700 (oltre che per le guerre napoleoniche). Ma Filippo IV in Italia è diventato un re “simpatico” per lo schiaffo di Anagni, e per la sua opposizione a Bonifacio VIII, e probabilmente per una diffusa mentalità ateista, di stampo illuminista e marxista . Non è certo la prima volta che la storiografia italiana prende cantonate. Un caso recente – e clamoroso – è quello delle FOIBE TITINE, che per decenni sono state taciute fino agli anni ’90, per oltre 40 anni! Fino ad allora il maresciallo Tito era stato considerato un saggio eroe, sia da sinistra che da destra (anche perché si oppose a Stalin), e si è sorvolato sui suoi crimini di guerra.

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