L'uscita dal sé, III: rinuncia e limiti

Poche parole risultano odiose alle orecchie degli uomini occidentali quanto il verbo rinunciare. Tutto li esorta a non accontentarsi, a non trovare la quiete in quello che posseggono, ad azzardare. Da ogni parte giungono loro elogi dell'estremo, inviti a spingersi sempre più avanti, a oltrepassare barriere, a dimostrare a sé stessi e agli altri che i limiti dell'uomo (di quest'uomo che agisce o fa, in realtà: l'esibizionismo, l'egocentrismo, il narcisismo sono il signum reprobationis che sfigura l'animo contemporaneo) che i limiti dell'uomo sono tali solo per coloro che non hanno la volontà e la tenacia di darsi anima e corpo per superarli.
Questa retorica dell'assenza ontologica, per così dire, di limiti dell'umano, che prese lentamente forma nell'età moderna e dilagò col Romanticismo (e che Goethe rappresentò magistralmente nel Faust), è diventata uno scialbo luogo comune con l'affermazione della società consumistica, tanto da essere, ormai, l'oggetto d'innumerevoli pubblicità e un valore dato per scontato dalla maggioranza degli occidentali. Chi rinuncia è bollato come un poveraccio, il loser del milieu nordamericano. Chi parla di limiti è un pavido o, peggio, un ozioso, un pigro, un indolente, una persona che vive alle spalle degli altri: un parassita, insomma.

Umberto Boccioni, La città che sale, 1910, New York, The Museum of Modern Art.
Prima di proseguire, vorrei fare una breve digressione terminologica. A me sembra che la traduzione in italiano più corretta di loser non sia tanto, o non solo, il letterale perdente o l'affine fallito, come riportano i dizionari; quanto il gergale sfigato (termine che racchiude in sé i significati di sfortunato e iellato, ma con in più una carica canzonatoria simile a quella di ragazzini che si beffino di un coetaneo per difetti fisici indipendenti dalla sua volontà), perché la parola sfigato è diventata l'offesa più comune con cui s'etichettano coloro che non hanno successo nella vita, proprio come gli americani fanno con loser. Se ho ragione, la nostra lingua reca ancora traccia di quell'esperienza millenaria che insegna quanto siano incerte e altalenanti le sorti degli uomini. Della mancanza di ciò non si può fare una colpa agli statunitensi: la relativa giovinezza della loro nazione, accompagnata sia dall'individualismo protestante fusosi con l'ideologia positivistica del Progresso sia da due secoli d'inarrestabile ascesa economica, politica e militare, ne determina la superficialità e il generale conformismo nell'affrontare i temi esistenziali. E, soprattutto, la cieca e sciocca fede che l'uomo sia in grado di risolvere tutto, che tutto si possa aggiustare.

Spinoza, come ci racconta all'inizio del Trattato sull'emendazione dell'intelletto (brano riportato in un altro articolo presente su questo sito), non rinunciò ai piacere mondani per insensibilità o pavidità. Cessò d'inseguirli perché gli oggetti che li stimolavano non avevano quella consistenza e quella stabilità ontologica che lasciasse sperare che il loro godimento potesse apportargli quiete e felicità indefinite. La sua scelta fu un azzardo, come egli aveva ben chiaro. Rischiò di rinunciare a quanto gli uomini considerano beni per mettersi alla ricerca di qualcosa che potrebbe non esserci (non sono pochi coloro che, affermata la vanità di tutte le cose, non hanno cercato quel Qualcosa che vano non sia: qualunque visione rigorosamente materialistica non pervasa dal pathos della Verità, ossia dalla smania, di solito originatasi dalle vicende particolari della vita e non dalla riflessione teorica, di diffondere il lume della ragione e scacciare le tenebre della superstizione, non contempla la presenza di un Alcunché di divino che meriti, Esso solo, tutta l'attenzione e il desiderio di solito diretti agli enti sensibili). Non è quest'estrema, quasi sovrumana (come la definisce Goethe in un celebre passo della sua autobiografia Poesia e Verità), rinuncia che a me qui interessa. Non voglio, cioè, parlare o magnificare ciò che io per primo non ardirei fare. Ma un rinunciare più semplice, quotidiano, frutto di continua ponderazione della qualità di ciò che desideriamo e della natura stessa del nostro desiderio. Chiedersi: "cosa desidero?", e: "perché lo desidero?" In altre parole se l'oggetto valga la pena di essere perseguito e se lo si stia perseguendo per sé stesso oppure perché strumentale al raggiungimento o al soddisfacimento di qualcos'altro.
Il primo, enorme ostacolo all'analisi quotidiana del desiderio sta nella natura stessa della nostra società. Non è un mistero che la società dei consumi si poggia sullo sfrenato e smodato desiderare dei singoli individui - dei consumatori (orrida e svilente parola, con cui sempre più spesso si caratterizza l'uomo contemporaneo: "consumatore e cittadino", dicono certuni con orgoglio. Mi chiedo quanto ancora il secondo termine verrà usato. In fondo, però, si tratta d'una delle manifestazioni del declino del politico a cui stiamo assistendo da alcuni decenni). Lo spauracchio del PIL immobile o, orrore degli orrori, in diminuzione, si concretizza anche nelle lamentazioni per il contrarsi del mercato interno. Ogni qual volta i consumi declinano, i mezzi di comunicazione ce lo presentano non solo come il segno dell'inadeguatezza della classe dirigente (oppure della pessima congiuntura internazionale, a seconda della consorteria alla quale la testata fa riferimento), ma anche come il preannuncio dell'incombente regressione della società nel suo complesso. L'esortazione a "stimolare la domanda interna" riecheggia di media in media, acuendo la frustrazione del singolo che si sente leso nel suo diritto di consumare. Appoggiato dall'idea di essere un diritto, il consumare viene così sentito come un atto "naturale" per l'uomo, la cui impossibilità è percepita come una violenza. Rinunciare all'acquisto di un oggetto, o a una vacanza, o a una cena luculliana, diventa così la manifestazione di un diritto leso, non la mera scelta di buon senso di chi, in quel particolare momento della sua vita, semplicemente non si trova nelle condizioni economiche adeguate per intraprendere quella determinata spesa. Ne consegue che la mente, obnubilata dallo sdegno, non si domanda se quello a cui ha dovuto forzatamente rinunciare sia un qualcosa che, sì, se ottenuto avrebbe forse portato piacere, ma la cui mancanza non cagiona alcun danno concreto e che, soprattutto, non ci svilisce, non ci priva della dignità di persone. Ma l'oggetto, in fondo, non lo si vede più. Quello che conta, ormai, è la presunta violenza che ci sarebbe stata fatta (dallo Stato, dai partiti, dalle multinazionali ecc.), il nostro diritto a consumare che sarebbe stato leso. La conseguenza è - permettetemi l'aggettivo al limite dell'iperbole - devastante. Legare un desiderare sfrenato e smodato, che spesso s'incontra negli adolescenti, all'idea di diritto, porta a formare individui che non vedono al di là della propria interiorità e delle proprie passioni, individui indifferenti, incapaci di percepire che, oltre a sé stessi, esiste un mondo dall'andamento proprio, ondivago e altalenante, che quanto abbiamo vissuto finora non è la manifestazione della giustizia e della natura delle cose, ma uno dei tanti modi in cui l'esistenza umana ha preso forma nei millenni.

Pieter Bruegel, Paesaggio con la caduta di Icaro, 1555, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts.
Progresso indefinito e diritti naturali, immanenti a ogni uomo. Ecco a cosa si collega e con cosa si giustifica la sregolatezza astratta degli animi e le sue conseguenze perniciose per la quotidianità. Conseguenze che si moltiplicano in periodi di "crisi" economica come quello che l'Occidente (o, almeno, una buona parte di esso), sta vivendo in questo momento storico. Invece di percepire i limiti propri e quelli della società, invece di comprendere che l'andamento della storia non è un'iperbole in ascesa, e che quindi può capitare di trovarsi a vivere in un'epoca di minor ricchezza economica della precedente (tutti abbiamo presente gli alti lai che rimbombano nei mezzi di comunicazione riguardo alla constatazione che per la prima volta dal Dopoguerra la generazione attuale non avrà più "mezzi" della passata), ci si scaglia contro i presunti colpevoli, senza pensare che questa potrebbe essere un'opportunità per ripensare la nostra quotidianità, per approfondire la conoscenza di sé, per analizzare quello che prima accoglievamo irriflessivamente, per sforzarsi di guardarsi dall'esterno, per uscire da sé e capire che rinunciare potrebbe anche risultare non un depauperamento, non uno svilimento, ma un'occasione per plasmarsi, un'occasione per tenere a freno, prima, e per perdere, poi, quell'ansia causata dal continuo desiderare, dal sentirsi sempre inadeguati perché quello che possediamo è inadeguato (e lo si crede tale alla funzione che svolge, quando in realtà è inadeguato per come pensiamo che ci rappresenti), e che necessita d'essere sempre sostituito. Un'occasione, infine, per rendersi conto della propria marginalità, dell'essere, cioè, irrilevanti nella totalità degli eventi. Da quest'amara constatazione potrebbe alla lunga sorgere una serenità inaspettata, o, perlomeno, un chetarsi di quelle sciocche e puerili pretese che ci agitano.


[La riproduzione del dipinto di Boccioni è tratta dal Mark Harden's Artchive; quella della tela di Bruegel dalla Web Gallery of Art]

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