L'uscita dal sé, I: Faust e il Wanderer

E ora lasciate che m'inoltri
in vista del mare infinito;
che m'inginocchi, che preghi.
L'animo mio è così oppresso.
[Und nun laßt hervor mich treten, 
Schaun das grenzenlose Meer!
Laßt mich knieen, laßt mich beten!
Mich bedrängt die Brust so sehr.]
Sono versi (11075-11078) tratti dalla seconda parte del Faust. La scena si svolge in aperta campagna, dove sono introdotti tre personaggi che non si ripresenteranno più, almeno in prima persona, nel resto dell'opera. A parlare è il Wanderer, un Viandante (ma il termine è privo dell'accento posto sul vagare presente nell'originale tedesco; più adatto sarebbe, forse, il termine peregrino; ved. anche il verbo peregrinare, nella prima accezione) tornato laddove un tempo fu salvato dal naufragio da un'anziana coppia (Filemone e Bauci), ormai sul limitare della vita. Dopo aver salutato i due vecchi, chiede loro che lo lascino pregare di fronte al mare infinito (immagine sensibile del divino).
Inginocchiarsi e pregare. Sono due atti che manifestano il riconoscimento del divino da parte del Wanderer, cioè della Realtà somma (o dell'unica Realtà: qui sta tutta l'ambiguità della religiosità goethiana che, come scrive Karl Löwith, "era in grado di dire che poteva tanto venerare il sole quanto adorare Cristo") da cui egli dipende e alla quale si rivolge per ottenere sollievo dalle vicissitudini della vita (e sollievo non lo ha soltanto chi supplichi un dio personale affinché gli conceda una grazia o perché lo salvi, ma anche chi contempli, con religioso stupore, la maestà d'un divino impersonale dal quale dipendono le sue sorti e quelle dell'universo nella sua interezza).
La scena successiva si svolge in un palazzo. Faust, anche lui all'estremo dei suoi giorni, se ne sta meditabondo nel suo giardino di piacere. A un certo punto si sente giungere dalla casetta di Filemone e Bauci un quieto scampanio. Faust trasalisce e prorompe in un'imprecazione contro il dolce suono della campana, per lui un infausto tintinnio che gli rammenta che non possiede tutto, che ancora non ha trasfigurato tutto il vecchio mondo, che la sua opera non è compiuta, non è perfetta. Seppur centenario, insomma, è ancora smanioso e irrequieto, non ha trovato la pace, s'aggira per il mondo in cerca di un'esperienza che gli dia quella pienezza che non è mai riuscito a trovare (e che gli è negata per definizione).

Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare, 1809, Berlino, Nationalgalerie.



Faust e il Wanderer sono figure speculari. Entrambi afflitti, entrambi irrequieti, entrambi ricchi d'una lunga esperienza, si differenziano per l'atteggiamento nei confronti del divino. Il Wanderer, tornato in un luogo della giovinezza per render visita a coloro che un tempo lo salvarono, ha l'animo dolente, gravato dalla varie vicissitudini della sua esistenza. La pietas lo spinge a cercare coloro a cui deve la vita, per benedirli. Questo gesto antico, ormai desueto nel nuovo mondo di Faust, esprime la riconoscenza per quella brava gente che s'operò gratuitamente per salvarlo dai marosi. Ed è un gesto estraneo alla nuova epoca anche quello d'inginocchiarsi e pregare per trovare sollievo alle pene che lo affliggono. Faust ignora questi sentimenti. Nella sua irrequietezza appare turbato dal piccolo appezzamento di terreno, misero ma sereno vestigio del vecchio mondo e del vecchio Dio, che stona col nuovo ordine, "capolavoro dello spirito umano/che col proprio ingegno ha creato/questa distesa abitabile ai popoli" (vv. 11248-11250). Ma soprattutto manifesta nuovamente, con l'insofferenza per quell'insignificante neo nel suo nuovo regno, quella smania astratta che posa lo sguardo su oggetti sempre nuovi nell'illusione di poterla placare: "nell'abbondanza sentire cosa ci manca,/questo è il tormento più amaro" (vv. 11251-11252). 
A leggere questi versi, espressione d'un animo così smodato (si rammenti che il latino modus significa anche misura, moderazione), viene in mente la celebre ammonizione di Seneca, sentenza esemplare della civiltà classica, i cui resti sono stati eclissati, assieme al cristianesimo, dal sorgere del mondo moderno: "non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est", è povero chi desidera di più [chi non cessa mai di desiderare], non chi possiede poco (Lettere morali a Lucilio, I, 2).


Adam Elsheimer, Giove e Mercurio visitano Filemone e Bauci, 1609-10, Dresda, Gemäldegalerie. L'episodio ritratto nel quadro è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio. Goethe lo riprende, mantenendo le caratteristiche di ospitalità, gentilezza e abnegazione dell'anziana coppia, ma lo spoglia d'ogni elemento sovrannaturale, sostituendo agli dei olimpici il Wanderer e non dando loro nessun premio, anzi, sacrificandoli assieme al loro "vecchio Iddio" alla furia faustiana del progresso.
A Faust s'oppongono anche i due anziani sposi, Filemone e Bauci. Anch'essi vecchissimi, a differenza di Faust, di cui diffidano perché hanno sentore del potere "demoniaco" (la tecnica desacralizzante) di cui egli s'avvale, accettano la propria vecchiezza e trovano pace e riposo fuori di sé, fuori dal disperante e usurante recinto dalle proprie brame ("Squilla la piccola campana, e io smanio", dice Faust al verso 11258), trovano riposo nella preghiera e nell'affidarsi a Dio: 

Andiamo alla nostra cappella
a vedere l'ultimo raggio di sole!
Suoniamo la campana, inginocchiamoci, preghiamo
e affidiamoci al vecchio Iddio.

Quello che spira da questi versi (11139-11142) è la serenità dell'accettazione e dell'abbandono. Filemone e Bauci accettano la vecchiaia e il mesto destino che essa preannuncia. Accettano l'ordine delle cose voluto dalla divinità e se ne beano (l'esortazione a godere l'ultimo raggio del sole morente - verso che tuttavia può essere letto anche come metafora del declino del "vecchio Iddio"). La serenità di gesti che si ripetono uguali da sempre, che sono divenuti abito e rito, che addolciscono e rassicurano. Faust, invece, non è mai sazio d'esperienze, abbisogna di continue novità per placare quella smania che lo divora, che gli fa rigettare tutto quello che ha ricevuto e che egli stesso ha trovato o plasmato. 
Animo irreligioso, Faust non lo è perché bestemmi o neghi Dio, ma perché per lui non esiste nulla che abbia un valore "oggettivo", che valga di per sé, che sia degno d'esser venerato o riconosciuto come ontologicamente ed esistenzialmente preminente rispetto alla propria individualità. Tutto ciò che gli si para di fronte può tutt'al più essere occasione perché il suo bramare si concentri su un particolare oggetto, finché, una volta possedutolo, non lo getti via deluso per volgere altrove lo sguardo inquieto, nell'illusione (consapevole in Faust, ma non negli uomini moderni che così icasticamente rappresenta) che l'altro su cui poserà lo sguardo sarà finalmente fonte di pienezza. 
Faust, insomma, è emotivamente nichilista. Per lui il mondo non ha consistenza emotiva. Esiste soltanto il suo animo, tormentato da uno sfrenato desiderare e dalla brama di "potenziamento" (una sorta d'assurda ascesa di livello ontologico che nulla ha a che vedere con l'indiarsi della mistica). 
Faust non troverà mai la pace perché errate sono le sue premesse, errato è il suo soggettivismo ego-centrato che cerca in sé, nell'attività e nell'azione plasmatrice (la Tat con cui traduce il logos giovanneo) su un mondo inerte e muto, pienezza e compimento. Errato è non uscire dal proprio sé per incontrare quell'Alcunché di divino, di "oggettivo", dal quale egli stesso sorge e nel quale, una volta riconosciutolo e accettatolo, potrebbe trovare quel compimento e quella pace che altrimenti inseguirà senza possibilità alcuna di raggiungerli.


Consiglio la lettura dell'articolo Alcune considerazioni sul Faust, sia per chiarificare alcuni punti sia per avere un quadro più ampio delle questioni affrontate.

[Tutte le immagini sono tratte dalla Web Gallery of Art; Johann Wolfgang Goethe, Faust, trad. it. di Franco Fortini, Mondadori, Milano 2001; Karl Löwith, Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, trad. it. Donzelli, Roma 2000]

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