"The dread of something after death": il timore svanito

Uno dei primi post che ho pubblicato su questo sito è intitolato Amleto e l'uomo moderno. In esso espongo sommariamente l'idea che il personaggio shakespeariano possa essere assurto a simbolo dell'uomo colto occidentale per una sua caratteristica fondamentale: la scissione tra pensiero e azione, l'incapacità di risolversi che si traduce in una costante titubanza, nell'incapacità di aderire alla vita. E tuttavia il titolo del post non fu scelto a caso: Amleto e l'uomo moderno. La congiunzione serve per non dare l'idea che il personaggio creato da Shakespeare possa essere considerato l'epitome dell'uomo moderno tout court (il Faust goethiano vi si avvicina), per mantenere le distanze tra la sua sensibilità tardorinascimentale e la nostra, di uomini postromantici.

Uno dei tratti lontani della sensibilità di Amleto è il suo rapporto con la morte.
Essere ... o non essere. È il problema.
Se sia meglio per l'anima soffrire
oltraggi di fortuna, sassi e dardi,
o prender l'armi contro questi guai
e opporvisi e distruggerli. Morire,
dormire ... nulla più. E dirsi così
con un sonno che noi mettiamo fine
al crepacuore ed alle mille ingiurie
naturali, retaggio della carne!
Questa è la consunzione da invocare
devotamente. Morire, dormire;
dormire, sognar forse ... Forse; e qui
è l'incaglio: che sogni sopravvengano
dopo che ci si strappa dal tumulto
della vita mortale, ecco il riguardo
che ci arresta e che induce la sciagura
a durar tanto anch'essa. E chi vorrebbe
sopportare i malanni e le frustate
dei tempi, l'oppressione dei tiranni,
le contumelie dell'orgoglio, e pungoli
d'amor sprezzato e rèmore di leggi,
arroganza dall'alto e derisione
degl'indegni sul merito paziente,
chi lo potrebbe mai se uno può darsi
quietanza col filo d'un pugnale?
Chi vorrebbe sudare e bestemmiare
spossato, sotto il peso della vita,
se non fosse l'angoscia del paese
dopo la morte, da cui mai nessuno
è tornato, a confonderei il volere
ed a farci indurire ai mali d'oggi
piuttosto che volare a mali ignoti?
La coscienza, così, fa tutti vili,
così il colore della decisione
al riflesso del dubbio si corrompe
e le imprese più alte e che più contano
si disviano, perdono anche il nome
dell'azione. Ma zitto! Ora la bella
Ofelia s'avvicina. - Possa tu,
Ninfa, nelle preghiere ricordare
i miei peccati.
Si tratta del celeberrimo monologo del terzo atto (Amleto, III, I, vv. 56-89), forse il brano più celebre del teatro shakespeariano e uno dei luoghi più famosi di tutta la letteratura occidentale.
Amleto è angustiato dalla penosa situazione in cui le parole del fantasma del padre lo hanno gettato. Oltre al dolore e al rancore per l'infame assassinio del genitore, Amleto soffre per la sua irresolutezza, per la mancanza di quell'impeto che egli ritiene appropriato alla verità che gli è stata svelata. Il secondo atto si chiude con Amleto che, pur disprezzandosi, si decide ci cercare prove irrefutabili della colpevolezza dello zio attraverso la rappresentazione di un'opera teatrale che richiami al fratricidio commesso. Quando torna in scena, le sue tribolazioni lo spingono a riflessioni che trascendono i suoi casi per investire la condizione dell'uomo.
Le prime parole del monologo accarezzano voluttuose il pensiero del suicidio. Di fronte alle continue traversie dell'esistenza, ad Amleto il suicidio sembra non solo una possibilità da considerare, ma la scelta da compiersi, l'atto liberatorio che affranca l'uomo dalla sua miseria. E tuttavia il dubbio s'insinua di nuovo. L'immagine vivente della morte è il sonno. Ma sarà essa un sonno profondo, buio e silenzioso, oppure costellato di sogni? Fuor di metafora: con la morte sopraggiungerà l'annientamento della nostra persona, oppure permarremo e andremo in contro a un giudizio che potrebbe comportare sofferenze ben più orribili di quelle che sopportiamo quotidianamente? Il terrore del giudizio vince la ripugnanza pei mali che ci travagliano; e il pensiero di quello che potrebbe attenderci ci fa chinare la testa e sopportare quello che altrimenti ci avrebbe già da tempo spinto a toglierci la vita. La possibilità del giudizio invilisce lo spirito e ferma la mano, impedendo non solo il gesto di liberazione, ma anche quelle azioni degne che entrano in contrasto con la coscienza turbata da timori religiosi.
Il pensiero della morte in Amleto non è dunque fisso sul fatto nudo della fine della vita, ma è accompagnato dal dubbio sul reale termine dell'esistenza e dal turbamento che ne consegue.

Rembrandt, Filosofo in meditazione, 1631, Parigi, Musée du Louvre.
Se in Amleto il tema del giudizio dopo la morte è affrontato in quell'atmosfera di dubbio, incertezza e titubanza che permea tutta l'opera, in altri autori, sia precedenti sia posteriori a Shakespeare, la vita ultraterrena è considerata non solo una falsa superstizione, ma anche una iattura che avvelena l'esistenza.
Una delle più belle e note operette morali è senza dubbio Il dialogo di Plotino e Porfirio. In essa Leopardi affronta il tema del suicidio attraverso una serrata discussione tra i due interlocutori del dialogo intorno all'opportunità di togliersi la vita. Plotino ha intuito l'intenzione di Porfirio di darsi la morte, e lo invita a confessarsi con lui. Porfirio si apre all'amico, esponendogli le sue ragioni. Sì, perché per Porfirio, come per Amleto, togliersi la vita è un atto ragionevole, non frutto di malattia o di sventure. Porfirio, tuttavia, concede di esser preda del tedium vitae, di quello stato di sazietà e disgusto per tutte le cose. Ma questo stato che noi oggi chiameremmo depressivo non è considerato morboso da Porfirio, anzi: è ragionevolissimo, mentre sono "le altre disposizioni degli uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera, si vive, e stimasi che le cose umane abbiano qualche sostanza; sono, qual più qual meno, rimote dalla ragione, e si fondano in qualche inganno e in qualche immaginazione falsa". La ragionevolezza del suicidio. Leopardi, uno dei primi tra i moderni, parla del suicidio non più come un'azione riprovevole da condannare, ma come un gesto che riscatta la dignità umana, come l'unico atto concessoci per affrontare le quotidiane miserie a cui siamo sottoposti (David Hume aveva scritto nel Settecento un saggio Sul suicidio in cui critica punto per punto la posizione cristiana in materia). Di conseguenza, sono coloro che hanno avvelenato le coscienze con gli assurdi timori di ricompense e castighi ultraterreni a portare impresso il marchio d'infamia, a meritare gli improperi di solito destinati al suicidio e a chi non lo condanna o, peggio, lo giustifica. Nell'operetta Porfirio imputa a Platone la diffusione del "dubbio terribile". Nel suo pensiero è da rintracciarsi la causa "che si veggano gl'infelicissimi mortali temere più il porto che la tempesta, e rifuggire coll'animo da quel solo rimedio e riposo loro, alle angosce presenti e agli spasimi della vita. Tu sei stato agli uomini più crudele che il fato o la necessità o la natura". Dietro di lui, in realtà, si cela il cristianesimo.
Leopardi, per la giustificazione del suicidio, riecheggia posizioni classiche. Si pensi al senechiano "agamus deo gratias, quod nemo in vitae teneri potest" ("sia ringraziato il dio perché nessuno può essere obbligato a continuare a vivere", Lettere morali a Lucilio, 12; ma quanta differenza tra il filosofo romano, che ritiene il suicidio un'opzione da prendersi in considerazione in determinate circostanze, e il Porfirio leopardiano, così netto e categorico, così tetragono nella sua condanna dell'esistenza!); o, più in generale, al diverso rapporto che l'antichità classica aveva col suicidio prima dell'avvento del cristianesimo. E' questo ad aver per primo condannato un gesto non inviso neppure all'ebraismo. Oggi, tuttavia, sentiamo non solo la titubanza di Amleto, ma anche lo sdegno di Leopardi estranei alla nostra sensibilità. L'approccio alla morte e al suicidio è mutato rispetto all'epoca in cui Leopardi scagliò i suoi anatemi contro il cristianesimo. Il suicidio è stato medicalizzato. Quella "disposizione" che lo stesso Leopardi acconsentiva "facilmente che ella in buona parte provenga da qualche mal essere corporale", oggi è considerata sempre e comunque una malattia, non uno stato d'animo che in taluni casi potrebbe dipendere dalle vicissitudini dell'esistenza (come una serie sfortunata di eventi luttuosi), o, perché no, da una non banale riflessione filosofica. In qualche modo il sentire e l'ideologia che stanno alla base della medicina contemporanea rigettano e, in certi casi, perfino impediscono di abbandonare volontariamente l'esistenza. Non che sia in ogni caso sbagliato prendersi cura di persone che brancolano in stati depressivi. Ci mancherebbe. Il problema, a parer mio, è un altro: la ferma convinzione che il desiderio di permanere in vita sia lo stato normale dell'individuo, e che il pensiero di togliersi la vita sia sempre e comunque causato da una malattia, ossia uno stato patologico come il raffreddore o la gastrite. In questo modo viene negato l'elemento peculiare dell'uomo, la sua differenza specifica rispetto agli altri animali con cui condivide l'esistenza su questa terra: la coscienza di sé, l'individualità, il rapporto non puntiforme ma storico col mondo di cui fa parte.
Credo che l'origine dell'atteggiamento testé citato sia da rintracciarsi nell'influenza morale ed esistenziale del cristianesimo e nel concetto di natura. Sull'eredità cristiana ho poco da dire od obiettare: c'è (ci sarebbe, anzi, la necessità di un più vasto riconoscimento della sua profonda influenza anche in visioni della vita a prima vista lontane quando non antitetiche). Per quanto riguarda il concetto di natura, invece, ripeto qui quanto ho scritto in un altro post: finché continueremo a ritenere naturale (una sorta di sinonimo positivista di essenziale, con annessa la normatività derivante dalla sua maggiore realtà rispetto a ciò che è accidentale; in questo caso il genericamente "culturale") solo l'elemento "biologico", non solo depaupereremo l'uomo, troncandone la sua parte caratteristica, ma ci troveremo bloccati in impasse che hanno anche rilevanti conseguenze pratiche.

Edward Hopper, Stanza d'albergo, 1931, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.
Riguardo alle osservazioni sulla medicina ufficiale, potrebbe essermi avanzata la seguente obiezione: "non è vero che si voglia tenere in vita l'uomo sempre e comunque, è scorretto dire che non si considerino le sue concrete condizioni di vita: il rifiuto dell'accanimento terapeutico è sempre più diffuso, e l'eutanasia è una pratica legale in molti paesi civili". D'accordo, ma quando è permessa l'eutanasia? Quando non ci sono più speranze di sopravvivenza per il malato, quando le sofferenze causate dalla patologia sono tali da diventare intollerabili, vere e proprie torture la cui imposizione sarebbe un atto disumano. Malattia all'ultimo stadio, sofferenze insostenibili. L'eutanasia è permessa quando la medicina non può più far nulla per riportare quella persona nel suo stato normale - la "salute fisica" - o comunque continuare a tenerlo in vita passabilmente, senza, cioè, sofferenze intollerabili. La corporeità, l'elemento biologico è il discrimine, ciò su cui si basano le decisioni mediche.
La titubanza di Amleto di fronte alla morte è svanita. Appartiene all'insieme di quegli atteggiamenti e modi di sentire di un tempo che non è più. Oggi ciò che spaventa del pensiero di togliersi la vita non è la selva dov'è punito Pier delle Vigne (e nella quale si sentono rimbombare le terribili parole dello scialacquatore Lano da Siena, che implora l'annichilimento totale), ma la morte come fine, come concretizzarsi di quel nulla che ossessiona l'uomo occidentale dalla "morte di Dio", ossia da quando la visione del mondo e il sentire cristiano hanno cessato d'informarne la quotidianità. Perfino nelle prediche e nelle omelie dei sacerdoti cattolici è rarissimo sentir rammentare la prospettiva della vita ultraterrena, fatta eccezione per i funerali, quando, però, la necessità consolatoria (per la perdita del defunto e per quella morte da cui per una volta non si può distogliere lo sguardo) impone l'assicurazione dell'ascesa del caro estinto al regno dei cieli. In tutte le altre occasioni gli accenni alla morte e al giudizio sono sporadici. Finanche la morale, ormai l'oggetto quasi esclusivo delle preoccupazioni ecclesiastiche, non è più ancorata alla possibilità della dannazione. Piuttosto alla presunta naturalità o innaturalità dell'atto (come, ad esempio, nel caso della determinazione del concetto di famiglia o della "retta" sessualità). E' una giustificazione presente da secoli nella dottrina cattolica, assestatasi al culmine del Medioevo col cosiddetto aristotelismo cristiano di San Tommaso d'Aquino. Tuttavia non può non colpire l'osservatore che nessun sacerdote minacci la tenebra eterna a coloro che non agiscono cristianamente (io rammento soltanto Giovanni Paolo II esortare gli assassini di don Pino Puglisi a pentirsi ricordando loro il giudizio di Dio). Se perfino in seno alla Chiesa cattolica, l'ultima struttura che manifesti ancora una forma d'opposizione al moderno, gli accenni alla "undiscovered country" di Amleto si fanno sempre più sparuti, ci si renderà facilmente conto di quanto la sensibilità sia cambiata negli ultimi due secoli. Cambiata in meglio, o in peggio? Chi vi scrive è tutto meno che nostalgico dei funerei predicatori medievali (predicatori che, d'altronde, avrebbero poca presa, vista la mancanza di fede). C'è tuttavia da domandarsi se siamo di fronte a una reale "liberazione", a quell'affrancamento bramato per secoli da numerosi filosofi e intellettuali avversi ai "timori superstiziosi" con cui il cristianesimo impediva agli uomini una vita vera e piena su questa - l'unica - terra. Mi permetto il dubbio di Amleto al riguardo.

[William Shakespeare, Amleto, trad. it. di Eugenio Montale, Mondadori, Milano 2000; le immagini sono tratte dalla Web Gallery of Art (Rembrandt) e dal Mark Harden's Artchive (Hopper)] 

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