Alcune considerazioni sul termine "natura"

Nei post pubblicati su questo blog ho usato spesso la parola “natura”. Essendo uno dei termini più importanti della filosofia occidentale, e, al tempo stesso, uno dei più polisemici e ambigui, mi sembra opportuno cercare di chiarificarne i significati. Va da sé che non intendo certo proporre alcuna definizione definitiva del termine, ma soltanto, appunto, chiarirne alcune accezioni.
Comincerò col dire che sono interessato soltanto ai significati ontologici del termine, quelli, cioè, che si riferiscono a una qualsivoglia realtà. Tralascerò, quindi, una delle principali accezioni di natura, quella che vede il termine usato come sinonimo di “essenza”.
Nel linguaggio comune col termine natura solitamente s’intende il complesso di ciò che non è opera dell’uomo. Soprattutto oggi, nell’epoca della storia umana in cui l’uomo ha raggiunto una capacità manipolativa inusitata e profondamente influente sull’ambiente, la distinzione tra natura e uomo (o, più spesso, tra naturale e artificiale) è usata sovente, e con intento polemico, per discriminare l’opera dell’uomo, considerata perniciosa, dall’opera della natura, ritenuta spesso benigna e comunque sempre bisognosa d’essere protetta dalle sconsiderate e rapaci grinfie dell’uomo (è questo bisogno di protezione e di considerazione rende i tempi presenti radicalmente nuovi, davvero altri rispetto al passato, come Hans Jonas ha lucidamente sottolineato). L’immagine d’una natura benefica oggi prevale su quella, leopardiana, di matrigna indifferente alla sorte dei suoi figli. E anche quando le “catastrofi naturali” saturano i mezzi di comunicazione, si tende ad additare l’uomo quantomeno come concausa (è il caso dei disastri causati da eventi metereologici, imputati spesso ai cambiamenti climatici cagionati dagli effetti di un’industrializzazione rapace e dissennata). Quando non lo si può (i terremoti non sono causati dall’uomo, a meno che non si faccia detonare un ordigno nucleare nel sottosuolo - ma la mera possibilità di farlo mostra quanto grande sia il potere che la scienza ha messo nelle mani degli uomini), alla natura viene comunque imputata innocenza per la sua spontaneità. Il procedere della natura, insomma, se non è visto come buono, non viene comunque malgiudicato. Al di là delle valutazioni che si scorgono nel linguaggio comune odierno, quello che importa è che oggi più che mai la distinzione tra natura e uomo è percepita in maniera netta e distinta.
Rembrandt, Aristotele contempla il busto di Omero, 1653, New York, Metropolitan Museum of Art.
Fu Aristotele, nel primo capitolo del secondo libro della Fisica, a concettualizzare la distinzione che oggi ci è familiare. Aristotele ritiene che siano natura tutte quelle cose che hanno in sé il principio del movimento e della quiete, mentre non sono natura, ma arte, quelle che non lo posseggono. "Avere il principio del movimento e della quiete" significa che si sviluppano senza l'intervento d'una causa esterna, cioè dell'opera dell'uomo che produce determinati oggetti per determinati fini. Anche l'uomo inteso come organismo è natura, mentre non lo sono i prodotti del suo ingegno e del suo operare quotidiano.
In post precedenti, sopratutto ne La perdita del mondo, ho usato questa distinzione, ampliandola anzi per sottolineare che nell'epoca contemporanea non c'è soltanto la differenziazione tra i prodotti dell'arte e quelli della natura, com'è sempre accaduto dall'alba dei tempi; ma che siamo di fronte a una netta separazione tra il mondo naturale, coi suoi tempi, con la sua regolarità, coi suoi processi che si ripetono stabili (almeno dal punto di vista della quotidianità d'un essere effimero come l'uomo) e quello umano che, con la tecnica accoppiata alla forsennata dinamica economica capitalistica, ha sia accelerato il ritmo sia giustapposto un mondo di cose che hanno distanziato e resi indifferenti gli uomini alla natura, coi suoi cicli e coi suoi "prodotti". La natura è, ormai, nella concreta dinamica quotidiana (che conta assai più dei discorsi edificanti di certi intellettuali e organi d'informazione), una miniera e uno spazio neutro sul quale si è sviluppato il mondo umano, autoreferenziale e indifferente, perlomeno fin quando esso, dal quale non ci possiamo alienare, non va a condizionare o minacciare la routine quotidiana dei paesi cosiddetti "evoluti".
Ricapitolando, finora abbiamo considerato il termine natura nell'accezione di "insieme delle cose non prodotte dall'arte umana" e di "ambiente entro il quale l'uomo si muove e sul quale, oggi, ha costruito il proprio, nuovo mondo". In entrambi i casi la natura è definita per opposizione o comunque per "sottrazione" dell'attività umana. Dico "attività" perché, come già notato, anche l'uomo è un prodotto della natura. Il corpo è stato da sempre considerato parte della natura anche da quei filosofi dualisti che lo svilivano (gli gnostici, ad esempio) o comunque lo separavano dalla parte più nobile della persona umana (Platone, Cartesio ecc.). Questa distinzione si è mantenuta, nei moderni tempi scientifici, cambiando il dualismo di corpo e anima in quello di natura e cultura, dove per natura s'intende la parte biologica dell'uomo, mentre con cultura tutto quello che è prodotto (banalizzo per necessità) dell'attività cosciente, propria, per quel che ne sappiamo oggi, solo della nostra specie.
Noto, en passant, che in questa moderna versione dell'antico dualismo tra anima e corpo, si è visto un ribaltamento valutativo: è la natura la parte "buona", da valorizzare o a cui tornare, mentre la cultura rappresenta la sovrastruttura soffocante e castrante da cui liberarsi (la "morale", come nel caso di Nietzsche o di certuni filosofi del Settecento illuminista francese). Un altro segno del mutato atteggiamento spirituale dell'Occidente nei confronti non solo del trascendente (abbandonato o ignorato), ma anche dell'elemento teoretico in generale (Goethe, nel suo Faust, ha mirabilmente condensato questo passaggio epocale).
Pieter Bruegel, Cacciatori nella neve (Gennaio), 1565, Vienna, Kunsthistorischesmuseum.  Celeberrima opera del grande pittore fiammingo (se ne ricorda, tra l'altro, l'uso che ne fece Andrei Tarkovskij nel suo Solaris), Cacciatori nella neve fa parte della serie dei dipinti dedicata al mutare delle stagioni. A differenza dei libri d'ore miniati del tardo Medioevo (come le splendide Très riches heures du Duc de Berry dei fratelli Limbourg), dove sono gli uomini, col loro lavoro o le loro vesti a far individuare il periodo dell'anno, "nelle opere di Bruegel, al contrario," - scrivono Rose-Marie e Rainer Hagen - "è sempre la natura a rendere riconoscibile la stagione, mentre gli uomini, al pari degli alberi e degli animali, costituiscono solo una parte dei paesaggi che si stendono a perdita d'occhio."
Il termine "natura" deriva dal participio passato natus del verbo nascor, che significa: nascere, essere generato, sorgere, crescere, svilupparsi. Natura è la parola che usarono i latini per tradurre il greco physis (φύσις), che deriva dalla stessa radice del verbo phyo (φύω): generare, nascere, crescere.
Nel suo Velo di Iside, Pierre Hadot abbozza la storia del cambiamento del significato del termine physis nella Grecia antica. Nei poemi omerici "la parola physis designa il risultato di una crescita. Ermete mostra a Ulisse, affinché possa avvalersene contro i sortilegi di Circe, l'aspetto (physin) - radice nera e fiore bianco - 'dell'erba della vita', che gli dèi , egli dice, chiamano molu. Questo 'aspetto' è la forma particolare e determinata che risulta da un processo di sviluppo naturale." La stessa cosa accade nei filosofi presocratici e nei trattati ippocratei: physis non è mai usato slegato da un dato ente a cui si riferisce. Ha sempre un uso relativo. Solo in Eraclito s'era osservato, per la prima volta, un uso assoluto del termine. Il filosofo di Efeso con physis non si riferiva al solo risultato di un processo, ma al processo stesso. Physis era dunque per lui sia il movimento sia ciò che ne risulta. Con Platone assistiamo al primo presentarsi del termine come lo intendiamo oggi. Con physis designa, per criticarlo, l'oggetto di ricerca dei presocratici. Quest'oggetto è l'indagine della natura, che però propone una spiegazione meramente materiale, inadeguata, secondo Platone, a spiegare il divenire degli enti. La physis non è che un processo cieco, spontaneo e, perciò, privo di ragione, che non può in alcun modo essere il principio della realtà: è una forza intelligente (come l'anima dell'uomo) a essere il principio delle cose. Aristotele, mantenendo il significato platonico, ritiene che tutti gli enti (viventi e non) abbiano immanente il principio del movimento. Non c'è però l'idea che il processo sia frutto di un'arte divina (così la chiama Platone), poiché, come abbiamo visto, la caratteristica degli enti naturali per Aristotele è di avere in sé, immanente, il principio del movimento e della quiete. Con gli stoici, infine, il termine assume definitivamente i significati che avranno gran fortuna nel pensiero occidentale. Con physis intendono il principio divino (il fuoco, chiamato anche, non a caso, logos)  che informa tutte le cose e che ne è la causa. E, allo stesso tempo, il risultato dell'opera sempiterna di tale principio: la natura nelle sue multiformi manifestazioni sensibili - il mondo, insomma. 
Natura principio divino del divenire sensibile e natura come insieme dei risultati. Nel Medioevo, durante il quale il principio sempiterno fu identificato con Dio (comunque sempre trascendente), vennero usati due attributi per distinguerne le accezioni: natura naturans, per indicare il principio divino creante, e natura naturata, per indicare le cose sensibili, effetto dell'attività creatrice della divinità. Spinoza manterrà la terminologia medievale (Etica, I, XXIX, Scolio): la natura naturata sono le cose sensibili (i modi, nella terminologia spinoziana), mentre la natura naturans è "Dio inteso come causa libera" (non c'è quasi bisogno di dire che il dio di Spinoza non è quello biblico, e che libera è "quella cosa che esiste in virtù della sola necessità della sua natura e che è determinata ad agire soltanto da sé stessa"; niente a che vedere col liberum arbitrium indifferentiae della tradizione teologica cristiana: Dio è libero perché non c'è nulla che ostacoli il suo "agire" necessario).
Pieter Bruegel, Mietitura (Agosto), 1565, New York, The Metropolitan Museum of Art.
Chiudo con due osservazioni. In primo luogo, oggi la natura naturans (o in qualunque modo la si voglia chiamare), è scomparsa dal dibattito filosofico. Qualcuno potrebbe ribattere che si tratta d'un concetto diventato ormai desueto per effetto del moderno dibattito scientifico, che lo ha escluso dall'ambito della ricerca razionale (scienza e razionalità sono ormai ritenute quasi sinonimi). Ammessa e non concessa la non razionalità del concetto, si registra comunque una perdita nel domandare, una perdita a livello esistenziale. La scienza moderna è una cosa mirabile, nessuno (perlomeno non io) lo mette in dubbio. E tuttavia le descrizioni e le spiegazioni dei fenomeni possono a certuni non bastare. Un tarlo li rode, il tarlo di sapere cosa tenga insieme il mondo nel suo intimo, cosa sia a far nascere, a far crescere, a far morire.
In secondo luogo, mi domando se, da una prospettiva naturalistica e immanentistica, abbia senso la distinzione tra uomo e natura (intendendo stavolta il termine nell'accezione riportata all'inizio del post). Mi chiedo, cioè, se non sia opportuno considerare natura anche la stessa cultura (intesa come la sfera dell'attività consapevole umana e dei suoi prodotti), avendo presunto l'uomo un ente naturale a tutti gli effetti. L'utilità della distinzione classica è indiscussa, anche per la stessa vita quotidiana. E, tuttavia, dal punto di vista metafisico, non si può affermare la naturalità dell'uomo e continuare a considerare una sua parte (la più significativa, se non la più importante) scissa o comunque altra dall'insieme delle cose naturali.

[Tutte le immagini sono tratte dalla Web Gallery of Art; Aristotele, Fisica, in Opere, vol. 3, trad. it. Laterza, Roma-Bari 2001;  Pierre Hadot, Il velo di Iside. Storia dell'idea di natura, Einaudi, Torino 2006; Rose-Marie e Rainer Hagen, Bruegel, Taschen, Colonia 2002; Baruch Spinoza, Etica, trad. it. Editori Riuniti, Roma 2004; Wladyslaw Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 2002]

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