La perdita del mondo

Alla base di Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, l’ultima e forse più importante delle opere maggiori di Karl Löwith, c’è l’idea che la fede cristiana abbia sradicato l’uomo dal cosmo, creando il terreno fertile per quello smarrimento sopraggiunto con lo sfiorire del sentimento religioso nell’Europa ottocentesca (la nietzschiana “morte di Dio”). Una volta svanita quella fede che si poggiava sull’idea dell’alleanza tra Dio e l’uomo, cioè sul primato ontologico dell’uomo rispetto al resto del creato (è l’uomo solo a essere fatto a immagine di Dio), l’umanità occidentale s’è trovata smarrita in un mondo al quale non sente più d’appartenere, in una natura fredda e indifferente, alla quale riesce ad avvicinarsi soltanto con la gelida lucidità della mente e l’operosa e indefessa attività della mano. L’uomo occidentale non ha più ritrovato, a dispetto di tutte le dichiarazioni di ritorno alla natura fatte in Europa dal Settecento in poi, quel legame diretto, emotivo, quell’intima persuasione d’appartenere a un cosmo ben ordinato degno di reverenza e rispetto che caratterizzava l’umanità pagana prima dell’avvento del cristianesimo e della sua furia svilente e separatrice.
Prima di cominciare l’analisi della visione cristiana del mondo e di passare in rassegna la sua metamorfosi nel pensiero moderno, Löwith descrive succintamente quella pagana. Il punto di partenza è un celebre frammento eracliteo (n. 30): “Quest’ordine universale [kosmon], che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dei o tra gli uomini, ma era è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura.” Nel frammento è condensata la visione greca del mondo. L’universo è una totalità sempiterna e ordinata che non deve ad altro da sé né la sua esistenza né il suo scorrere regolare. All’interno di questo cosmo, accanto agli altri esseri viventi, c’è l’uomo, un animale che ha, sì, caratteristiche peculiari rispetto agli altri (la parola – logos – anzitutto), ma che non è ontologicamente differente rispetto a essi. Questo animale vive all’interno di comunità le quali, al pari del resto del cosmo, sono regolate da leggi, e sono in correlazione, non separate, da ciò che non è umano.

Giorgione, La tempesta, circa 1505, Venezia, Gallerie dell'Accademia. Dell'enigmatica opera di Giorgione una certezza balza agli occhi: è la natura, non l'uomo a essere al centro dell'interesse della composizione del Maestro. La natura con tutta la sua potenza e il suo mistero. Gli uomini rappresentati sono immersi in essa, non sono, come nei dipinti tipici di quel periodo, il fulcro, non occupano la maggior parte della tela, lasciando ai meravigliosi paesaggi dipinti alle loro spalle le briciole del quadro.
Da questa visione risulta una riverenza che porta, nell’antichità, a una vera “cosmofilia”, un amore di natura religiosa per quel cosmo che tutto è e tutto genera. Le conseguenze non sono di poco conto. L’uomo non è la cosa più importante per l’uomo stesso. L’universo, col suo mirabile ordine che sempre permane e che tuttavia ogni momento si rinnova, è la realtà più importante, la realtà che non solo deve primariamente occupare la mente e l’animo dell’uomo, ma dal punto di vista della quale bisogna guardare per giudicare tutte le vicissitudini umane, per comprendere il destino della nostra specie. Un esempio di questa religiosità cosmica pagana è il seguente passo tratto dall’opera di Marco Aurelio (VII, 18):
C'è qualcuno che teme la trasformazione? E cosa può avvenire senza trasformazione? E cosa vi è di più caro e familiare alla natura dell'universo? Tu stesso puoi forse prendere un bagno caldo se la legna non si trasforma in calore? Puoi nutrirti, se il cibo non si trasforma? E che altro, tra le cose utili, può realizzarsi senza trasformazione? Non vedi, quindi, che anche la tua trasformazione è uguale a queste e ugualmente necessaria alla natura dell'universo?
Nell’opera dell’imperatore e filosofo le vicissitudini degli uomini non vengono giudicate secondo i parametri umani, troppo umani della gioia e del dolore, ma secondo la legge divina che anima e regola il cosmo. Perché le trasformazioni a cui va sottoposta la vita umana non sono soltanto quelle felici (amore, amicizia, conoscenza ecc.), ma anche quelle dolorose e, da ultima, la fine di sé come individuo, quella morte che, parimenti allo sguardo pregno d’amore della propria amata, è parte necessaria del cosmo. Un’affermazione come quella che fa Leopardi nel Canto notturno: “uso alcuno, alcun frutto/ indovinar non so”, riferendosi all'intero universo, sarebbe parsa all’imperatore non soltanto assurda, ma soprattutto empia. Chiedersi a che scopo gli astri seguano regolari il loro corso, a qual fine girino senza posa per tornar sempre donde sono partiti sarebbe stato impensabile: la perfezione (per gli antichi il movimento apparentemente circolare degli astri lo era) va contemplata, non messa in dubbio, e il cosmo non ha alcun senso recondito, nessuno scopo che vada scoperto al di sotto dell’apparente insensatezza delle sue dinamiche: è, nella sua immensità, nella sua potenza, nella sua bellezza (la dimensione estetico-contemplativa aveva, pei greci, un’importanza a noi moderni sconosciuta: la bellezza si giustifica di per sé, per il solo fatto d’esistere, e il cosmo è ciò che è supremamente bello). Come il cristiano riterrebbe assurdo domandarsi a che scopo Dio esista, così il pagano Marco Aurelio chiedersi: “a che tante facelle?/ che fa l’aria infinita, e quel profondo/ infinito seren?” (sospetto anche che l’imperatore, di fronte una poesia come Il tramonto della luna, dopo esser rimasto incantato dai primi diciannove versi che evocano mirabilmente la notte rischiarata dagli ultimi raggi della luna, si sarebbe meravigliato dal proseguio, patetico e lamentoso, del componimento: non basta forse per rallegrare l’animo del lettore quei primi, splendidi versi su una natura quieta e misteriosa?)

Se l’antichità pagana, anche nelle sue tarde manifestazioni di religiosità interiore che spingeva al ritiro dal mondo, aveva mantenuto  la divinità del cosmo (anche nello stesso Plotino, dalla sensibilità per certi versi così simile a quella cristiana coeva, il mondo, pur non essendo più l’ente sommo, resta comunque necessariamente esistente, in quanto parte integrante dell’essenza divina), con l’avvento del cristianesimo il mondo viene ontologicamente ed emotivamente degradato. Il cosmo non è più sempiterno, non è più autonomo, non è più degno di quel rispetto, di quella riverenza, di quell’amore tributategli dall’umanità pagana. In quanto prodotto di Dio che lo ha tratto dal nulla, il mondo è a un livello incommensurabilmente inferiore, di dipendenza ontologica dalla sua causa invisibile e trascendente. Ma non è cambiato soltanto lo status del mondo: è cambiato anche quello dell’uomo. Nel cristianesimo l’uomo non è più un animale dotato di parola che vive nella polis. È una creatura, non un ente che sorga dalla natura e che si muova in essa. La sua creaturalità, caratteristica che lo accumuna a tutti gli altri esseri, non implica però che esso sia ontologicamente come loro. L’uomo è l’unico frutto della creazione che abbia impresso in sé il sigillo del Creatore, che sia fatto a sua immagine e somiglianza. Ma la somiglianza con Dio non la si può scorgere nell’aspetto esteriore dell’uomo, nel suo corpo, ovvero in ciò che lo accomuna con tutte le altre creature. Dio l’uomo lo scorge ripiegandosi in sé stesso, scrutando nelle profondità del suo intimo. E trova il proprio sé autentico incontrando Dio. Il mondo cessa quindi non solo di essere degno d’amore e di riverenza, ma anche d’interesse. Se infatti si tratta d’una creatura, e d’una creatura di livello inferiore all’uomo; se Dio non lo si può scorgere in esso, ma lo si deve cercare nelle profondità della propria interiorità; e se in queste, incontrandolo, si trova la felicità, perché è incontrando il proprio Creatore che l’uomo giunge a compimento, perché continuare non solo a riverire (un atto scioccamente empio), ma anche a interessarsi al mondo esterno? Donde tutti gli appelli ad abbandonare il mondo o il secolo (con questo termine si dichiara l’imperfezione e la finitudine dell’universo, in quanto lo si ritiene avere non solo un inizio, ma anche una fine ben definiti), a non abbandonarsi alla concupiscenza della carne e degli occhi. La vista, il senso prediletto dagli antichi, quello che rivelava loro la maestosità del cosmo sempiterno e autonomo, è adesso ridotta a fonte d’errore e perdizione. L’uomo ha da ascoltare la Parola di Dio come si palesa nelle scritture, e ha da cercare dentro di sé, non al di fuori, la Verità che lo guiderà verso la salvezza. Questo distacco dal mondo, questa diffidenza verso il senso che ce lo fa incontrare si ripresenterà in forme nuove in tutta la filosofia moderna, in quella riflessione che, pur credendosi emancipata da ogni religione e teologia, metterà costantemente in dubbio l’esistenza del mondo o comunque la legherà o subordinerà alla struttura della coscienza dell’uomo.

Hieronimus Bosch, Il giardino delle delizie, pannello centrale, 1500, Madrid, Museo del Prado. La perdizione si presenta, nell'opera boschiana, con le soavi e conturbanti seduzioni degli occhi e della carne. Tutte le delizie mondane sono fatte per dannare l'uomo, non per addolcirne l'esistenza.
Nel Discorso sul metodo, Cartesio ci racconta che è giunto all'elaborazione della sua filosofia dopo aver compiuto un triplice distacco da ciò che, per varie vie, aveva ricevuto.
Uscito dal collegio gesuita di La Flèche, il giovane Cartesio è profondamente insoddisfatto delle conoscenze ricevute. Gli sembrano poco più che opinioni, sostenute soltanto dall'uso secolare e dal principio d'autorità. Così, con un atto coraggioso, abbandona gli studi e la patria e si mette a viaggiare per l'Europa. Al termine del suo peregrinare giunge alla conclusione della relatività degli usi e dei costumi delle varie società umane: non ci sono argomenti per affermare che quelli d’un paese siano migliori di quelli d'un altro. Cartesio decide tuttavia di rimanere legato ai propri per prudenza e abitudine, ma non sono più una seconda natura, non ci vive più inconsapevolmente dentro. E non entrano nell'elaborazione del suo sistema filosofico. Dopo aver preso le distanze dalla cultura e dagli usi e costumi ricevuti,  Cartesio compie il terzo e ultimo distacco. Questa volta sono i sensi a essere messi in discussione: ciò che essi ci mostrano non è affidabile, quindi dobbiamo fare a meno delle loro informazioni, riducendole alla stregua di mere fantasticherie. Cartesio rinuncia dunque alle conoscenze, ai costumi, al mondo. Rinuncia cioè alla sua concreta individualità, al suo essere un uomo che deve la sua peculiare personalità all'appartenere a un'epoca, a una società, alla realtà stessa (sensibile). Cartesio se ne distacca e, nel solipsismo d'una coscienza svuotata d'ogni contenuto, cerca un punto d'appoggio non solo per costruire un solido edificio scientifico, ma anche per riottenere la certezza del mondo. Il punto d’appoggio è, com’è noto, duplice: l’immediata certezza della propria esistenza della coscienza pensante (il cogito) e la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Grazie a quest’ultima dimostrazione (ripeto, dimostrazione: quello di Cartesio non è il Dio vivente della Bibbia, un dio cui rivolgersi, che palpiti d’amore per la sua creatura prediletta, ma l’ente sommo, freddo, trascendente non solo perché al di là del mondo da lui creato, ma anche perché non partecipa alle vite degli uomini), Cartesio ottiene la certezza epistemologica del suo sistema e ontologica dell’esistenza del mondo esterno. A parte i problemi, da sempre segnalati, riguardo alla presunta circolarità delle argomentazioni cartesiane, quello che a me interessa sottolineare, sulla scia del ragionamento di Löwith, è la natura ontologicamente diversa e inferiore del mondo esterno, una realtà di cui non si ha immediata certezza, alla quale non si appartiene, da cui non si sorge né ci si muove, perlomeno per quanto riguarda il nostro intimo, vero essere. Il mondo resta sempre un alcunché al di fuori di noi, al quale emotivamente ci opponiamo anche quando intellettualmente ci pensiamo, almeno dopo il crollo dell’idealismo tedesco e l'opera darwiniana, parte integrante di esso.
Nonostante tutti gli asseriti superamenti della separazione tra soggetto e oggetto, nella nostra coscienza comune il mondo è rimasto fino ad oggi un mondo esterno, presumibilmente perché noi siamo ancora cristiani, sebbene nello stesso modo in cui si è tedeschi o francesi, senza credere in Dio e senza pensare alla salvezza dell’anima. L’uomo, pensa Agostino e pensiamo anche noi, non sente nulla tam intime quanto sé stesso.
Così riassume Löwith, in Dio, uomo e mondo. Ho sottolineato i termini “coscienza comune” per rimarcare quanto sia necessario differenziare lo iato che c’è oggi in Occidente tra la dimensione teoretica e quella esistenziale, quotidiana. Tuttavia questa distacco, questa separazione dal mondo, non si manifesta soltanto nel perdurante rapportarsi dell’uomo come soggetto nei confronti di un oggetto che gli è, se non ostile, quantomeno estraneo. Nell’epoca contemporanea, tecnologica e industrializzata, il mondo naturale non è più l’elemento entro il quale, nonostante tutto, si muoveva il cristiano in cammino verso la patria celeste. Oggi un nuovo mondo, coi suoi tempi, coi suoi ritmi, con le sue strutture, s’è sovrapposto o quantomeno giustapposto a quello naturale. Per millenni gli uomini sono stati vincolati a due cicli fondamentali: quello quotidiano di luce e ombra, e quello annuale delle stagioni. Oggi tutto ciò non è più vero. Certo, ancora i cicli naturali hanno grande importanza nella vita degli uomini "civilizzati”, ma il legame s’è attenuato e la dipendenza è cessata. Luce e ombra ancora scandiscono le giornate, ma non le vincolano più. L’elettricità ha dilatato i tempi, tanto che la notte è vissuta, da certuni, come un prolungamento del dì o comunque come un momento in cui si può, volendo, vivere come di giorno. I vincoli ci sono, ma sono di natura sociale, legati cioè all’elemento umano, non a quello naturale. Il risultato è che non si presta più attenzione alla luce del sole, non la si considera più un elemento fondamentale per determinare e scandire le attività quotidiane. La notte, poi, non manifestandosi più nella sua piena oscurità, ha perduto ogni carattere evocativo e terrifico, così come il tornare del sole all’alba non è visto più come sollievo e rinascita.
Un’altra caratteristica del mondo umano contemporaneo che rivela la sua concreta distinzione da quello naturale sono le infrastrutture che in esso vengono costruite. Osservando un’autostrada e una vecchia strada provinciale, si noterà come la prima tagli il paesaggio, proceda geometricamente (quindi, astrattamente) da un punto a un altro – ovvero da un nodo del mondo umano a un altro: le grandi città – facendo pochissime concessioni al territorio attraverso cui passa. E quando le fa è per motivi di natura o progettuale, o economica, o politica. Per motivi umani. Le vecchie strade, invece, s’insinuano per il territorio, ne seguono sinuosità e ondulazioni. Osservandole si ha l’impressione d’un posarsi dolce e leggero, se non, in alcuni casi, di vera e propria integrazione. La stessa cosa potrebbe dirsi delle strade ferrate odierne: le nuove, quelle su cui sfrecciano i treni ad alta velocità, rispondo alla stessa logica, portata però all’estremo, data la necessità di far correre i convogli a trecento chilometri orari più o meno costantemente. La conseguenza di queste strutture è un “accorciamento delle distanze”, intendendo, con quest’espressione, non i chilometri in meno da percorrere perché non si segue la geografia del territorio attraversato, quanto il tempo in meno necessario per percorrerlo e, soprattutto, la concreta percezione di tali distanze. Salire in treno a Roma alle dieci del mattino ed essere a Milano prima dell’una, fa sentire al passeggero le città più vicine e gli fa perdere ogni percezione di quanto concretamente esista fra i due punti del suo viaggio. Non si ha più la sensazione concreta di quanto sia grande quello spazio tra la partenza e l’arrivo, quanto mondo ci sia tra di essi. La velocità avvicina emotivamente, perché la percezione della distanza è collegata più al tempo necessario per percorrerla che alla sua espressione con un’unità di misura (la stessa sensazione la provai, anni fa, percorrendo per la prima i venti chilometri che mi separano da Cortona in bicicletta: mi sembrava di essere assai più lontano da casa di quanto non mi fosse sempre parso nel raggiungere in auto la cittadina). Il mondo, insomma, ne viene svilito, perde parte della sua grandezza e maestosità (ovviamente l’aereo è il mezzo che ne accentua ancor più il rimpicciolimento).
Questo allontanamento dell’uomo dalla natura, ormai mero piedistallo su cui s’adagia una costruzione senza radici che s’innalza, traballante nella sua massiccia pomposità, fino al cielo, ha comportato anche una perdita “estetica”. Non mi riferisco alle devastazioni compiute in nome del Progresso e della Civilizzazione, ma alla perdita del godimento della cangiante diversità della natura. Chiunque viva non dico in città, ma anche nella maggior parte delle campagne urbanizzate italiane (e occidentali in genere) non può più godersi, ad esempio, l’effetto che ha sul mondo quotidiano mutare dell’intensità della luce. I versi del leopardiano Tramonto della luna a cui accennavo sopra non potrebbero sorgere nell’epoca contemporanea (così come le celeberrime prime due terzine dell’ottavo canto del Purgatorio).
Quale in notte solinga,
Sovra campagne inargentate ed acque,
Là ’ve zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l’ombre lontane
Infra l’onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell’infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l’ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L’estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via.
Versi del genere non potrebbero essere scritti oggi. Le campagne sono rischiarate anche nelle notti di novilunio, e luoghi in cui i suoni della natura notturna non sono soffocati o almeno inframezzati dai rumori umani sono davvero pochi e remoti (nella mia regione, la Toscana, a parte i monti, bisogna raggiungere la Val d’Orcia o, meglio ancora, la Maremma per incontrare il buio e il silenzio). Ma quel che più conta è che il carrettiere di oggi, il camionista, se ne sfreccia per l’autostrada, cieco al tramonto della luna e sordo ai suoni della notte perché assediato da luci e rumori e distratto e interessato dai numerosi gingilli elettronici che ci riempiono ormai la vita. La società contemporanea è antropocentrica: l’uomo, con le sue dinamiche e i suoi prodotti, è al centro di tutto. Per la natura c’è un disinteresse che porta ad atteggiamenti irriguardosi e distruttori, tanto che oggi ha da essere protetta dalla nostra efficientissima e inesauribile rapacità, ridotta com’è a giacimento di beni da sfruttare (la crescita del PIL prima di tutto).

Nella Premessa alla sua opera, Löwith dichiara che il libro si conclude, anacronisticamente, con un capitolo su Spinoza perché “la storia della filosofia non costituisce alcun progresso ininterrotto nella coscienza della libertà, se la sola cosa che conta è la vera conoscenza dell’unica e sempre uguale natura di tutte le cose.” Spinoza ha richiamato, secondo Löwith, l’uomo all’interno del cosmo, mostrandogli che egli è parte di esso, che è la sua casa, che non è esiliato in attesa di tornare nella sua vera patria o un soggetto che si autodetermina da sé attraverso lo scegliere e l'operare (questa moderna e debole variante dell'umanesimo cristiano). Ma benché quella di Spinoza sia, per Löwith, la filosofia che più s’avvicina alla Verità, o che perlomeno può far uscire l’uomo occidentale dalla bonaccia in cui è fermo dopo la fine del cristianesimo, “noi siamo ancora cristiani, sebbene nello stesso modo in cui si è tedeschi o francesi, senza credere in Dio e senza pensare alla salvezza dell’anima.” Il che comporta un’ardua aderenza emotiva a visioni del mondo che siano antitetiche a quella cristiana. Ed è l’aderenza emotiva che permette a un individuo d’interiorizzare una visione del mondo, di viverla e non soltanto di professarla a parole. Ma è davvero possibile liberarsi di quello che ci ha determinato nel profondo fin dall'infanzia? E, anche se fosse possibile, quanti sarebbero in grado, una volta persuasi della Verità di quello che hanno abbracciato, d'intraprendere una via solitaria come fece Spinoza?

[Karl Löwith, Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, Donzelli, Roma 2000; Marco Aurelio, A sé stesso, Garzanti, Milano 1993; le immagini sono tratte dalla Web Gallery of Art]

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