Amleto e l'uomo moderno

Seguendo il consiglio di Seneca, molto spesso preferisco rileggere un libro di cui conosco la profondità e il valore, piuttosto che imbarcarmi in nuove, incerte letture soltanto per soddisfare la mera curiosità del nuovo o la compulsività oggigiorno presente anche nell'approccio alla lettura. Detto ciò, non mi privo certo del piacere di leggere nuove opere, perché i campi della cultura sono ormai sterminati, e non di rado ci s'imbatte in autori che ti stupiscono e t'aiutano a gettare una nuova luce sulla realtà. Ma preferisco comunque alternarle alla rilettura e all'approfondimento di quei libri che hanno contribuito e ancora contribuiscono alla mia formazione.

Ho da poco riletto l'Amleto. Come in tutte le grandi opere, ogni volta che lo si affronta vi si trova qualcosa di nuovo. Questa volta debbo ammettere che m'ha stupito più delle altre. Non avevo mai pensato alla figura di Amleto come rappresentativa dell'uomo occidentale. Non come il Faust goethiano, però, che condensa l'irrequietezza e l'incessante bramosia senza oggetto di tutti gli occidentali moderni, soprattutto quelli nati dall'epoca delle rivoluzioni in poi (capitalistica, industriale e francese). Amleto mi sembra una sorta di figura dell'uomo colto occidentale scisso tra il sapere e l'agire - o, meglio, tra la conoscenza di sé e l'adesione al vissuto. La mediazione irrisolta tra il pensiero e la vita, la mancata immanenza.
A pensarci bene, tutta la nostra cultura, basata com'è (o forse com'era: non m'è ancora chiaro cosa sia sopravvissuto alla Seconda guerra mondiale) sul sospetto e sulla critica, in particolare dal Seicento in poi, è una cultura amletica, dubitante, scissa, malaticcia, che partorisce uomini incapaci d'agire per quello in cui credono, perché non sono più immediatamente e irriflessivamente convinti della bontà delle loro credenze, eppure da esse sempre influenzati a tal punto da provare colpa e vergogna non solo per l'inazione, ma anche per la tepidezza della loro risposta emotiva. Soffrono non soltanto per non agire, ma anche per non sentire. Amleto diviene così l'archetipo (anche per l'epoca precoce in cui fu concepito) di tutta una civiltà dubitante e mediata, che non crede né vive più quei valori che erano suoi, ma che, allo stesso tempo, non può ripudiarli perché le restano solo quelli e hanno contribuito a costruirla, né sono ancora una parte, benché in decomposizione.

Eugène Delacroix, Amleto e Orazio nel cimitero, 1842, Parigi, Musée Delacroix.
All'inizio dell'opera, Amleto è descritto come uno studente ch'è tornato in patria per due infauste occasioni: la morte del padre e il matrimonio tra lo zio paterno e la madre. Disgustato non solo dalla rapidità con cui le nozze sono state celebrate, ma soprattutto per il mero fatto d'esserlo state (quasi incestuose e comunque avvilenti per la madre), Amleto vorrebbe tornarsene a Wittenberg, la città dove compie i suoi studi. Ma la ragion di Stato gl'impone di rimanere a Elsinore, dove mena una vita segnata dalla cupezza e dal livore, vagheggiando quel suicidio, unico sollievo per le sue pene e il suo disgusto, vietatogli dalla religione di cui ancora subisce la forte influenza. Poi, ecco che giunge, inaspettato, lo spettro paterno, a rivelargli che quella del padre non fu una morte naturale, ma opera dell'invidia, della viltà e della malvagità del suo snaturato zio. La reazione di Amleto non è un'immediata furia. Non snuda la spada e si dirige verso le stanze regali per vendicare l'infame assassinio. Amleto cade nel dubbio. Benché quella rivelazione sia coerente con l'immagine dello zio e con la fretta con cui s'è unito a sua cognata, infangando la memoria del fratello, Amleto dubita. Dubita che l'apparizioni sia soltanto un artificio del maligno per farlo dannare, dubita che i suoi sensi lo ingannino, che la sua mente sia in errore. Eppure quanta coerenza cogli eventi successivi alla morte del padre nel ritratto dell'assassino fatto dall'ombra del re defunto! Ma Amleto non è convinto, ha bisogno di prove incontrovertibili per agire, ha bisogno di scacciare ogni incertezza. Così imbastisce uno spettacolo in cui viene rappresentato l'omicidio del padre per studiare la reazione emotiva del presunto fratricida. Ma non basta. Dopo averlo visto fuggire via sconvolto di fronte alla rievocazione dell'orribile delitto, Amleto non lo uccide. Se lo trova di fronte inginocchiato, indifeso, mentre prega, e non lo uccide, lo risparmia perché vuol mandarlo all'altro mondo in peccato mortale, non vuol rischiare che abbia l'anima purgata dalla contrizione e dal pentimento. Ecco che la religione torna a fermargli la mano, com'era già successo in precedenza quando l'avrebbe voluta rivolgere contro sé stesso. Ma una religione verso la quale nutre dubbi su dubbi, esplicitati nel celeberrimo monologo dell'inizio del terzo atto. E non è solo per la religione che Amleto nutre dubbi. Anche la famosa battuta : "ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia", non è affatto la dichiarazione d'un credente che sbeffeggi le vacue e presuntuose certezze d'un adepto della ragione. Piuttosto manifesta di nuovo lo stato dell'animo e della mente di Amleto, quella sua natura incerta e ondivaga, quel suo sospettare continuo che lo trattiene dall'agire.
C'è da tener presente l'epoca in cui fu scritta la tragedia. L'intera opera di Shakespeare è costellata di richiami allo sconvolgimento delle credenze cosmologiche che allora s'andava consumando. Era l'epoca delle scoperte geografiche e della Rivoluzione astronomica, dell'inversione del systema mundi, del passaggio dal mondo chiuso all'universo infinito, della perdita di centralità cosmica dell'uomo. Da avere il centro dell'universo sotto i propri piedi, l'uomo tardorinascimentale si trovò d'improvviso gettato a fluttuare in uno spazio di cui non conosceva coordinate e dimensioni. Lo smarrimento che prese i più (non tutti: per Giordano Bruno l'infinità del cosmo era la più degna immagine sensibile della Divinità ineffabile) è ben presente nell'opera shakespeariana. E l'Amleto non è da meno. Credo, però, che limitare la figura di Amleto a mero uomo del suo tempo sarebbe ridurne la portata simbolica. Certo, i tempi sono cambiati. Alle certezze cosmologiche e scientifiche prerinascimentali se ne sono sostituite altre, granitiche anch'esse, se non più, accompagnate come sono da successi tecnologici che nemmeno la più fervida immaginazione avrebbe saputo anticipare. Ma certuni, tra noi, non sono poi così diversi dal principe di Danimarca: dubbiosi, valetudinari nello spirito, incapaci d'aderire alla vita, di prendervi parte fino in fondo. E come gli uomini dell'età elisabettiana, noi tutti fluttuiamo in un cosmo indefinito, forse più quieti soltanto perché riusciamo a rappresentarne i maniera più coerente ed efficace le dinamiche, senza però avere, come Amleto e i suoi contemporanei, coordinate e appigli che ci permettano di capire, e non solo di descrivere, quest'immensità di cui facciamo parte, in cui siamo smarriti.


[L'immagine è tratta dalla Web Gallery of Art]

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