La falsa immanenza

Il Crepuscolo degli idoli nietzschiano è costruito sulla convinzione che la riflessione filosofica occidentale sgorghi da un errore che ne ha inficiato la validità e che è stato foriero d'innumerevoli guasti esistenziali.
"In ogni tempo i saggissimi hanno giudicato la vita allo stesso modo: essa non vale niente..." Così inizia il capitolo del libro dedicato al "Problema di Socrate", il punto di partenza della virulenta critica nietzschiana a quella civiltà di malati che è l'Occidente. Civiltà di malati e di risentiti, deboli plebei. Socrate, qui come agli albori della riflessione filosofica nietzschiana, è visto come l'insorgenza della corruzione occidentale, l'uomo la cui predicazione avrebbe instradato il pensiero e la società verso quegli esiti esiziali che Nietzsche aveva sotto gli occhi.
Cosa imputa Nietzsche a Socrate? L'aver denigrato la vita. La famosa affermazione di Socrate alla fine del Fedone: "Vivere - vale a dire essere lungamente malati: sono debitore d'un gallo ad Asclepio" - quell'affermazione che condensa un atteggiamento di fronte alla morte ammirato nei millenni - è per Nietzsche fumo negli occhi. La vita una malattia di cui ringraziare il dio della medicina per esserne presto liberati? Una menzogna, un'infamia partorita da una mente corrotta e da un animo malaticcio. La menzogna d'un plebeo. Sì, perché Socrate, oltre a essere brutto e ambiguo, era anche di umili origini. Non era un figlio di quella splendida aristocrazia greca, che assommava in sé vigore, franchezza e bellezza: la salute, insomma. Era un monstrum in fronte et animo.
Atene viveva il suo declino, fisico e spirituale. In quel momento, quando la debolezza impediva ormai agli animi di padroneggiarsi, la voce di Socrate fu vista come un'inaspettata e benvenuta ancora di salvezza. La ragione e la virtù divennero, grazie al suo esempio, i due farmaci per combattere la malattia mortale che ammorbava la società ateniese. L'astrazione, lo sguardo dall'alto (il prendere sé stesso come oggetto d'osservazione), la negazione dell'immediato e dell'impulso: in una parola, il distacco dall'immanenza del sentire, dall'immanenza della vita: ecco il lascito di Socrate, ecco il paradigma che sarebbe stato abbracciato dall'intera storia della filosofia occidentale, e "approfondito" (immeschinito, reso più capzioso e subdolo) dal cristianesimo. Questo lascito culminava con la degradazione (e, più avanti, perfino con la negazione) ontologica del mondo sensibile (l'unico mondo esistente, per Nietzsche), e l'intima convinzione che la vera vita si trovasse o altrove (Platone, il cristianesimo), o in un netto rifiuto della parte istintuale e passionale, per una vita quieta, "secondo ragione" (Epicuro, la Stoà ecc.) Questa la grande colpa, il grande errore commesso da Socrate e sistematizzato da Platone: la vita è male, e darsi a essa comporta soltanto sofferenza, dolore e morte. Ma darsi alla vita è male perché quella che normalmente chiamiamo vita non è che parvenza e illusione. Il mondo vero, quello a cui appartiene la parte migliore dell'uomo, l'unica imperitura, è altro, non quest'instabile e cangiante fantasmagoria foriera di disperazione e morte.
Perugino, Socrate, 1497-1500, Firenze, Galleria degli Uffizi.
Studio per l'affresco del Collegio del Cambio di Perugia.
Nella Storia d'un errore ("Come il 'mondo vero' finì per diventare favola") Nietzsche condensa i passaggi che hanno portato dal trionfo dell'errore alla sua sconfessione e, infine, al suo definitivo superamento. Ma il superamento non era ancora avvenuto perché, benché Dio fosse morto per gli animi degli europei, ancora si continuava a seguire la vecchia morale (quantomeno nella forma secolarizzata della democrazia, della filantropia ecc.). Nietzsche aborrisce la mancanza di coerenza morale dei suoi contemporanei. Se in Dio non si crede più, bisogna trarne le ultime conseguenze, non vivere con superficialità e stoltezza la propria quotidianità (si rammenti il celebre aforisma dell'uomo folle, nella Gaia scienza).
Oggi, a oltre un secolo di distanza dalla pubblicazione delle opere di Nietzsche, il presunto errore del "mondo vero" sembrerebbe esser stato definitivamente confutato, grazie anche ai mirabili sviluppi della scienza e della tecnica. Chi oserebbe affermare che la vita degli uomini occidentali sia vissuta nell'attesa di un mondo altro oppure nella negazione degli "istinti", delle "passioni", degli "impulsi"? Siamo dunque finalmente tornati all'immanenza alla vita su questo mondo - espressione ormai senza alcun senso, perché i più ormai non ne sentono altri - all'aderenza netta alle dinamiche "naturali", non guastate e denigrate da una riflessione di deboli, di malati, di risentiti? L'uomo occidentale, che vive oggi nell'epoca del vero positivismo trionfante, è finalmente tornato tutto nella concretezza, nella realtà della vita?
Qui si porrebbe un problema spinoso, che potrebbe perfino confutare la correttezza della domanda: prendendo per buono l'assunto – tutt'altro che scontato – che di mondo ce ne sia uno solo (quello che ci mostrano i sensi), bisognerebbe comunque capire cosa s'intenda per vita. O almeno cosa intenda Nietzsche. A entrambe le questioni non posso certo dar qui una risposta (se mai io sia in grado di darla). Mi limiterò a dire che con aderenza alla vita intendo appunto un atteggiamento e un sentire scevri d'attese ultraterrene o anche solo d'un rigido pathos moralistico che predichi un agire improntato al dovere e scevro d'ogni elemento passionale (Kant, per intenderci, un'altra delle bestie nere di Nietzsche). Ogni atteggiamento, insomma, che vada a porre una netta cesura nel reale e nell'uomo, svalutando sempre l'elemento sensibile, "carnale" (dualismo ontologico e antropologico).
Nel mondo contemporaneo molte voci s'innalzano a lodare (o a combattere per) la possibilità per i singoli individui di vivere la propria esistenza seguendo le proprie aspirazioni e i propri desideri. Dal punto di vista giuridico abbiamo visto, nell'ultimo secolo, il progressivo sancirne la possibilità attraverso tutta una serie di riconoscimenti di "diritti" che vanno ancora ampliandosi. Parte di questi "diritti" si sono affermati lottando contro (mi riferisco in particolar modo al caso dell'Italia) quelle forze politico-religiose che volevano mantenere l'individuo inserito all'interno di strutture sociali ancorate a una visione religiosa e, quindi, antimondana e "repressiva" dell'esistenza. Non mi diffonderò intorno alla difficile difendibilità del concetto che sta alla base di questa visione (ché l'individuo, cioè, sia un'entità a sé stante che ha, non si sa come, brame e obiettivi indipendenti dall'ambiente e immuni a esso). Quello che m'interessa è che la sua diffusione è così ampia da renderla pressoché un dogma che non può essere sconfessato, pena gli anatemi della parte più "progressista" e "civilizzata" della società. Ma, soprattutto, ciò testimonia che gli uomini si autoproclamano immanenti alle loro esistenze, lontani dalle fantasmagorie dualistiche che hanno dominato la storia del pensiero, della religiosità e della vita dell'Occidente. Si ritengono tornati in seno alla natura, grazie anche alla scienza che tutto spiega senza fare ricorso ad alcunché che sia al di fuori del mondo sensibile. E' davvero così? Abbandonate le "fantasticherie" religiose e metafisiche, gli occidentali sono davvero tornati immanenti alla "natura"?
In due precedenti post ho affrontato (superficialmente) questioni che possono aiutare ad abbozzare una risposta. Ne La perdita del mondo, sulla scorta dell'opera di Karl Löwith, ho cercato di mostrare che il cosiddetto "ritorno alla natura", tanto vantato dagli occidentali moderni, non è che millanteria e autoillusione. Non si è affatto tornati alla natura. L'uomo occidentale, figlio che ha rinnegato il padre (il cristianesimo), non riconosce più la natura come la propria casa, ha perso per essa ogni venerazione, ogni pietas. Ha costruito un mondo nuovo, "artificiale", con propri ritmi e tempi, che si giustappone a quello naturale, col quale deve comunque da fare i conti sia per l'approvvigionamento delle materie prime (la natura ridotta a miniera e magazzino), sia per le avversità che essa, nella sua oggettiva indifferenza, causa alla specie umana. Non immanenza alla natura, quindi, ma giustapposizione indifferente. In Alcune considerazioni sul Faust ho illustrato perché si ritiene che il capolavoro goethiano sveli la forma mentis et animi dell'occidentale moderno: un astratto desiderare che non può essere soddisfatto perché indifferente agli oggetti, soltanto interessato al desiderio per il desiderio, in una circolarità soggettivistica che causa frustrazione e irrequietezza. Faust è l'uomo contemporaneo non tanto per l'intensità del desiderio, quanto per la natura del desiderare, così astratta, così autoreferenziale, così disinteressata al mondo.

Giovanni Bellini, Pietà, 1505, Venezia, Gallerie dell'Accademia. Capolavoro della scuola veneta, il quadro è un mirabile esempio d'una civiltà in cui il rapporto tra uomo e natura era ancora intimo e bilanciato, e non segnato, come nei secoli a venire, da quell'indifferente prevaricazione che sarebbe stata teorizzata di lì a cent'anni, e sistematicamente messa in atto non appena la scienza avrebbe fornito gli strumenti. Si noti l'armonico inserimento dell'elemento umano all'interno d'un paesaggio amorevolmente plasmato e custodito. Armonico non solo nella composizione, ma anche nelle dimensioni dei vari attori (Gesù, Maria e il paesaggio),  tutti posti sullo stesso piano dal punto di vista sia pittorico sia ideale, e nella cura con cui Bellini ha dipinto ogni parte della tela.
Astrazione, ecco la parola che riassume, a mio avviso, tutta la civiltà moderna. Con astrazione qui non intendo adesso quella “buona”, del concetto (e anche qui bisognerebbe capire se il concetto sia il modo in cui l’uomo pensa e categorizza il mondo, oppure abbia una sua realtà indipendente dalla mente che lo pensa; la disputa sugli universali, benché vecchia, non è affatto antiquata: a seconda di quale partito s’abbracci, avremo a cascata conseguenze ontologiche, morali, esistenziali – ma non c'è dubbio da quale parte stia il mondo moderno), ma tutto ciò che, seppur tangibile, non ha vita, non ha presenza, non ha sensibilità. E’ ciò che nasce dal lavorio astraente della mente e che viene poi plasmato dalla mano: l’artificialità. Mi riferisco in particolare all’artificialità tecnico-scientifica, quella della macchina, della rigida programmazione, della nuda struttura, dello scheletro senza carne – uno scheletro al quale però è stato infuso movimento, ma non vita. Vita astratta, si potrebbe dire, osando un ossimoro. La vita astratta della programmazione e della previsione estesa a ogni ambito della vita, dell’incasellamento dei giorni e delle ore, della pianificazione d’ogni atto e pensiero. La vita astratta delle costruzioni e delle città, ridotte a mere strutture funzionali senza ornamento, senza "guizzi", senza vita. La vita astratta dei “diritti” imposti, della concretizzazione forzata d’una società utopica che finirà per annullare le differenze nella convinzione di stare difendendole: costumi, sentimenti e azioni tutti conformi a un’ideale d’uomo progredito e civilizzato, rispettoso d’ogni diversità, perfettamente inquadrato nel proprio lavoro e nella quotidianità d’una società grigia e ordinata, autoconvintasi d’essere felice. Una società solipsistica – o, meglio, il solipsismo d’una società autoreferenziale, senza radicamento, cioè senza dei e indifferente alla natura. Un grande e mirabile meccanismo, mosso da un motore dove ogni parte è al suo posto, ma che gira a vuoto, senza avere alcuna direzione.

[Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, trad. it. Adelphi, Milano 2008; le immagini sono tratte dalla Web Gallery of Art]

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