“A te convien tenere altro viaggio”: l’uscita di Dante dalla selva

La Divina Commedia comincia con uno smarrimento, con Dante che vaga per una una selva oscura. È uscito dalla dritta via senza accorgersene, e adesso non riesce più a ritrovarla. Dopo aver vagato per la selva, a un certo punto si trova ai margini, al piè d’un colle giunto dietro la cui sommità già si scorge lo splendore del sole nascente. Rianimatosi per il pericolo che crede scampato (lo passo/che già mai non lasciò persona viva), Dante inizia a risalire il colle. Poco dopo, però, tre fiere gli ostacolano il cammino. La prima a sbarrargli la strada è una lonza, che non gli si partia dinanzi al volto, tanto che più volte fu tentato di tornare indietro. La luce del mattino e la bellezza della stagione primaverile lo rincuorano, ma d’improvviso gli si para davanti un leone. Il suo aspetto è terribile. Incede a test’alta e con rabbiosa fame, tanto da far tremare persino l’aria. Lo segue una lupa, gravata di tutte brame, bestia sanza pace, che getta Dante nel più profondo sconforto, tanto da perdere la speranza de l’altezza, e lo ricaccia nella selva, dove ‘l sol tace. Mentre Dante rovina in basso loco, mentre precipita nella selva da cui s’era illuso d’essere uscito, scorge una figura cui si rivolge disperato per chiedere aiuto. Fermiamoci qui, e cerchiamo di comprendere lo stato interiore che Dante descrive attraverso il racconto.

Gustave Doré, Dante nella selva

Dante ha trentacinque anni, è alla metà della vita secondo il computo biblico seguito al suo tempo, e si accorge di aver smarrito la retta via, di trovarsi alla deriva, senza punti di riferimento per proseguire nel cammino della vita. Nella selva non filtra luce, ed è priva di sentieri: un’oscurità uniforme la avvolge. Dante quindi è ridotto a vagare senza una meta precisa, senza uno scopo, e all’improvviso si rende conto con terrore della gravità della situazione: la sua vita non ha più significato. Giunge, senza dirci in che modo, al margine della selva, e riesce - per il momento - a uscirne attraverso un passo che già mai non lasciò persona viva. 

Come interpretare queste parole? A cosa allude, Dante, con il termine passo? I commenti di studiosi “accademici” che ho consultato tendono a identificare il passo con la selva, nel senso che chiunque non riesca a uscirne finisce perduto. Non essendo soddisfatto da codeste spiegazioni (il passo è un passaggio, non un luogo, una soglia da attraversare per andare da un posto a un altro) mi sono rivolto a un interprete “eccentrico” rispetto agli studi accademici, Luigi Valli, studioso dell’opera di Dante del primo Novecento, per cercare qualche indicazione. Nella sua Chiave della Divina Commedia, scrive che il passo “nel quale si muore, si muore misticamente, è il battesimo nel quale il cristiano, per i meriti di Cristo, per la virtù che emana dalla Croce, può, misticamente, morendo in Cristo, riacquistare lo “scire recte” vincere l’ignorantia derivante dal peccato originale e cioè uscire dalla selva” (La Chiave della Divina Commedia, p. 77). L'interpretazione di Valli è interessante, a patto che s’intenda il battesimo come un atto che virtualmente permette al cristiano d’intraprendere un cammino che, altrimenti, gli rimarrebbe precluso. Resta però il problema dello slittamento temporale tra il battesimo, che il cattolico Dante ha ricevuto in fasce, e l’inizio del viaggio oltremondano. Nei misteri antichi la morte “mistica” (sull’uso di questo termine ci sarebbero da riportare le notevoli precisazioni di René Guénon, che individua nel misticismo e nell’iniziazione due differenti esperienze spirituali) è il principio del viaggio dell’iniziato, il primo atto che lo pone nelle condizioni di ottenere la palingenesi (percorso il cui riflesso si trova, nell’Occidente contemporaneo, nell'iniziazione massonica). Identificandola col battesimo, invece, la morte mistica è una sorta di sigillo che il cristiano ottiene per eredità familiare. Ma il battesimo, ossia la rimozione della colpa primigenia di Adamo (e, non a caso, Valli si richiama al peccato originale), non rende ragione dell’ingresso e dell’uscita di Dante dalla selva alla metà della sua vita. Per questo l’identificazione del passo col battesimo appare quantomeno dubbia: Dante era sì mondato dal peccato originale, ma non da quei peccati da lui stesso commessi e che lo avevano, nel corso della vita terrena, smarrito nella selva. Resta aperta la possibilità d’intendere il battesimo come una virtualità da realizzare, ma quel passo che già mai non lasciò persona viva, solo forzatamente, mi pare di poter affermare, si può identificare col battesimo. Un altro interprete che identifica, come Valli, il passo da cui già mai uscì persona viva con la morte mistica, è Arturo Reghini. Come altre sue opere, l’articolo di Reghini in questione desta ammirazione e fastidio allo stesso tempo. Ammirazione, per le acute osservazioni espresse con una prosa vivissima; fastidio, per l’ostinata, cieca ostilità nei confronti del cristianesimo, che lo spinge ad affermazioni od omissioni che rasentano il ridicolo. Per Reghini la morte “mistica” è il passo di cui parla Dante, la morte che principia il cammino dell’iniziato, che richiama quella dei misteri eleusini. Reghini ne è certo per la presenza di Virgilio e per l’analoga discesa agli Inferi di Enea nel VI canto dell’Eneide. Un Dante pagano, quello del Reghini, che dissimula le sue convinzioni per timore del rogo. 
Che la Divina Commedia sia ben più di un’opera morale e politica, non ci sono dubbi. E non credo che il significato sia soltanto religioso, nel senso guénoniano del termine (benché esso sia uno dei livelli di lettura, uno dei significati del poema). Tuttavia il significato religioso e quello di un altro ordine non sono tra loro contraddittori, ma complementari. Per molti sarà agevole comprendere la disperazione di Guido da Montefeltro e l’umiliazione di Provenzano Salvani; pochi saranno quelli che sentiranno il trasumanare come una possibilità concreta per l’uomo. Senza contare che anche in seno al cristianesimo “essoterico” la natura palingenetica della Commedia è pienamente e ufficialmente riconosciuta:

Il fine della Divina Commedia è primariamente pratico e trasformante. Non si propone solo di essere poeticamente bella e moralmente buona, ma in alto grado di cambiare radicalmente l'uomo e di portarlo dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità, dalla contemplazione terrificante dell'inferno a quella beatificante del paradiso. L'afferma il sommo vate nell'epistola a Can Grande della Scala: «Il fine del tutto e della parte potrebbe essere molteplice, ossia vicino e remoto; ma, tralasciando un minuzioso esame, si può dire brevemente che il fine del tutto e della parte è togliere dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato di felicità» (Ep. XIII, 15).
Per tutto ciò la Divina Commedia si presenta come un itinerarium mentis in Deum, dalle tenebre della inesorabile riprovazione, alle lacrime della espiazione purificatrice, e, di gradino in gradino, da chiarezza in chiarezza, da fiammante a più fiammante amore, sino alla Fonte della luce, dell'amore, della dolcezza eterna:
«Luce intellettual, piena d'amore, — Amor di vero ben, pien di letizia, — letizia che trascende ogni dolzore» (Par. XXX, 40-42).

Questo lungo brano è tratto dalla lettera apostolica Altissimi cantus di Paolo VI, motu proprio in occasione del settimo centenario della nascita di Dante. Un tale riconoscimento, ripetuto anche di recente dall’attuale pontefice Francesco, è importantissimo e m’induce ad affermare che la Divina Commedia non va lasciata ai soli studi accademici. La prospettiva filologica e storiografica ne disinnesca la carica veritativa, la riduce a mero oggetto di studio da dissezionare e contestualizzare nell’epoca storica in cui fu scritta. Perciò, ben venga la filologia, ben venga la storiografia, strumenti indubbiamente utili, anzi utilissimi, ma sempre strumenti. Se divengono, invece, fini, se hanno l’ultima parola su un’opera come quella di Dante, il senso e lo scopo non solo ne vengono misconosciuti, ma anche negati. La coloritura nichilistica degli studi storici autoreferenziali credo infatti sia innegabile. A cos’altro può portare un’ideologia che vede nelle opere dello spirito l’accidentale frutto di un luogo e un tempo, e di quelli che sono stati sempre considerati i massimi problemi dell’uomo questioni prescientifiche - alla fine dei conti, quindi, non razionali? Forse perché si riconosce che le opere storiografiche sono condizionate dall’epoca in cui sono scritte, che anche quelle che in altra maniera e d'altro argomento si occupano debbono esserlo dalla medesima accidentalità?

La selva giace in un luogo basso, in una valle in cui non giunge la luce del sole. Dante, ormai alle sue estremità, né scorge lo splendore dietro alla sommità di un luogo alto, un ripido colle. Il sole, va da sé, è l’immagine sensibile di Dio. Dante ne vede la luce irradiarsi dietro la cima del colle, ma non lo scorge direttamente. Questa immagine potrebbe alludere a una conoscenza di riflesso, una conoscenza speculativa del Divino, una conoscenza meramente teorica. La vera conoscenza del Divino non può che essere frutto di un cammino progressivo di reintegrazione in esso, quel cammino che Dante si appresta stoltamente a intraprendere per una via illusoriamente diretta, ancora incapace di valutare in maniera corretta il suo stato interiore. E infatti, mentre incomincia a risalire l’erta, ecco che tre ostacoli gli parano davanti e lo ricacciano nella selva, lo rigettano in quello stato di smarrimento, in quel vagare senza metà di brama in brama. Il significato delle tre fiere è noto: lussuria, superbia e avarizia (nel senso antico di cupidigia, brama incessante che non trova mai soddisfazione). Questi sono i tre peccati che impediscono a Dante e a tutti gli uomini di tornare a Dio, di reintegrarsi in Lui. Ma stiamo ben attenti quando usiamo il termine peccato. Purtroppo l’ostilità nei confronti della religione che impregna ogni ambito della nostra società - dalla scuola alla famiglia all’informazione - ci fa pensare al peccato come a un’infrazione culturalmente costruita da un’organizzazione di potere (la Chiesa cattolica, nel caso della società italiana) volta a reprimere il dissenso, a tenere in riga, per così dire, le persone allo scopo di comandarle e di perpetuare il controllo sulla società e sulle sue ricchezze. Ora, lungi da me negare che ci siano state queste derive. Tuttavia, se vogliamo comprendere il messaggio salvifico dell’opera di Dante, bisogna uscire da questa angusta dimensione giudiziaria del peccato, e interpretarlo correttamente come tendenza dell’animo, come una forma di sregolatezza, di disordine interiore che non va represso, ma rettificato attraverso un lungo processo che comincia con la presa di coscienza del caos che alberga in noi e prosegue con il faticoso, incerto e lungo lavoro di riordino.

Dante di fronte alle fiere è all’inizio del cammino: è consapevole della presa che i tre peccati hanno sul suo animo, e dispera perché non riesce a dominarli. La morsa è troppo stretta, l’animo non è sufficientemente saldo per dissolvere quelle disposizioni che lo ricacciano là dove il sol tace

Mentre Dante, vinto dalle tre fiere, precipita in basso loco, d’improvviso gli si para davanti chi per lungo silenzio parea fioco. La figura non ignora il grido di dolore di Dante e, dopo essersi presentato, gli chiede perché torni a tanta noia, perché rovini in quella selva che ha finalmente riconosciuto come fonte di perdizione. Dante, di fronte al nome di Virgilio, dapprincipio gli dichiara il profondo amore e riverenza (Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore), poi ne implora l’aiuto per vincere la bestia che gli fa tremar le vene e i polsi. A te convien tenere altro viaggio, gli replica Virgilio, se vuo’ campar d’esto loco selvaggio. La via è sbarrata dalla lupa, che non lascia altrui passar per la sua via. Soltanto con l’arrivo del veltro sarà possibile, per gli uomini, prendere questa strada. Fino ad allora, altra e più lunga via attende chi vuole campar d’esto loco selvaggio. Virgilio farà da guida a Dante prima attraverso il regno degli spiriti dolenti, poi di color che son contenti nel foco. Un’anima più degna lo accompagnerà, infine, tra le beate genti.

London, British Library. Ms. Yates Thompson 36 (1444-1450 c.),
Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno I.

Le tre fiere, abbiamo visto, impediscono a Dante d’intraprendere la salita verso la salvezza. La più tremenda delle tre, la lupa, lo ricaccia nella selva donde fortunosamente era uscito. D’improvviso, una figura umana, di cui Dante non sa se sia od ombra od omo certo, gli si presenta alla vista. Come un naufrago che scorga all’improvviso qualcuno su una scialuppa, Dante ne implora l’aiuto, e scopre che si tratta dell’ombra di Virgilio, il suo modello di poeta. Qui bisogna sottolineare che un poeta, per Dante, è qualcosa di diverso rispetto a quello cui siamo abituati noi moderni: la poesia nel Medioevo ha una funzione allegorica, è una finzione che cela la verità. Non ha, quindi, un carattere individualistico, non ha come scopo il veicolo di sentimenti ed emozioni, benché possa suscitarne. Quella che molti contemporanei etichettano come “grande poesia dantesca”, ossia la rappresentazione (invero straordinaria) dei più diversi tipi umani, non ha valore di per sé, né tantomeno è l’emergere faticoso dell’uomo moderno dalle sterili paludi allegoriche medievali. Quegli straordinari racconti di uomini altro non sono che esempi tanto più efficaci di stati interiori e azioni da prendere a modello positivo o negativo (e, talvolta, uno stesso personaggio può essere parimenti modello da imitare e rifuggire: si pensi al Manfredi del terzo canto del Purgatorio, esecrabile per gli orribili peccati commessi in vita, esemplare per il sincero pentimento dell’animo in punto di morte). È uno degli innumerevoli tratti della miopia autoreferenziale della cultura moderna quello di cercare segni che anticipino il manifestarsi di sé nel proprio passato o in altre civiltà “arretrate”. Così viene non solo perso di vista l’oggetto indagato, ma si finisce anche per perpetuare la perniciosa illusione della nostra presunta superiorità rispetto ad altri tempi e luoghi, quando potrebbero invece aiutarci, comprendendoli nella lora alterità, a capire qualcosa sull’origine del disastroso disordine in cui siamo precipitati.

Virgilio esorta Dante a prendere un’altra strada. Quella diretta (il corto andar, come lo chiamo nel II canto) non è praticabile. Chiunque tenti di affrontare la lupa è destinato alla disfatta. La via breve sarà di nuovo aperta dopo che il veltro avrà ricacciato la lupa all’inferno. Conviene soffermarsi sulla celebre “profezia del veltro” e sulla figura della lupa. Delle tre fiere che Dante incontra è la lupa che lo ricaccia nella selva ed è la lupa che sarà la preda del veltro. Ecco la descrizione che ne dà Dante. Dopo il leone, che incedeva con la test’alta e con rabbiosa fame, gli si para davanti una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza. La terza fiera è consumata dagli ardenti desideri da cui è agitata, non riesce mai a saziarsi, mai non empie la bramosa voglia, e dopo ’l pasto ha più fame che pria, come dice poco più avanti Virgilio. Ci troviamo di fronte alla descrizione della dinamica d’un desiderio smodato e male indirizzato, che non riesce a trovare pace perché volto ad accaparrarsi oggetti che, per loro natura, non possono soddisfarlo. Tali oggetti sono i beni terreni, in qualunque forma essi si presentino (celebre l’episodio di papa Adriano V narrato nel XIX canto del Purgatorio, il quale, giunto al soglio pontificio, non riuscì a estinguere la cupidigia che lo consumava: Vidi che lì non s’acquetava il core). Soltanto Dio può portare all’uomo la vera pace, come Dante vedrà incontrando i beati in Paradiso (Piccarda dirà appunto che nella sua volontade è nostra pace). È questa brama insaziabile che smania quanto più ottiene a impedire a Dante di raggiungere la sommità del colle, di raggiungere Dio per il corto andar. Per l’uomo è quindi necessario un ben più lungo viaggio per riunirsi a Dio, un itinerario che lo faccia scendere anzitutto all’Inferno, poi risalire faticosamente la montagna del Purgatorio e, infine, ascendere in Paradiso percorrendone i diversi cieli prima di giungere al cospetto di Dio, prima di reintegrarsi in Lui. Con la lupa scatenata sulla terra, una possibilità dell’uomo è inibita. Tale possibilità tornerà disponibile quando il veltro avrà ricacciato la fiera all’Inferno, quando avrà ristabilito l’ordine tra gli uomini. L’ordine interiore ed esteriore - l’ordine spirituale nel significato più ampio del termine. Un ordine che è un’armonia generale che, una volta restaurata, riaprirà la via breve, quel corto andar che Dante non può percorrere.

Nel rileggere la profezia del veltro il pensiero mi è subito corso alla teoria ciclica della storia, alla discesa dall’età dell’oro (il Satya Yuga indù) all’età del ferro (Kali Yuga) e, alla fine di questa, all’apparire di una Figura (il decimo Avatara di Visnù) che ristabilirà l’umanità nello stato primordiale, quello più vicino al Principio di tutte le cose. In questa età dell’oro l’accesso alle verità metafisiche è possibile per tutti gli uomini, mentre, nelle fasi successive del ciclo, la platea si restringe, e le prove da affrontare s’inaspriscono. Ora, Jacopo della Lana, nel suo celebre commento trecentesco alla Divina Commedia, interpreta la profezia del veltro in chiave astrologica, parlando non delle quattro età del mondo, ma di sette età astrologiche corrispondenti ai sette pianeti. Col passare da un’età all’altra la presa della cupidigia aumenta. L’umanità al suo tempo si trovava nella sesta, o di Mercurio, caratterizzata dalla diffusa cupidigia che denuncia Dante. Vi sarà poi l’età della Luna, la più lontana dall’iniziale armonia, in cui “ognuno sarà pessimamente avaro”. Tuttavia, al punto più basso della decadenza dell’umanità, apparirà una Figura che la ristabilirà nell’armonia dell’età di Saturno, età senza alcun vizio. 

Sarebbe interessante approfondire la questione, cercando di capire se le due interpretazioni cicliche, apparentemente discordanti, non siano armonizzabili tra loro. Comunque sia, siamo di fronte a una visione non semplicemente politica (il veltro come un sovrano che ristabilirà la pace sulla terra), ma totalizzante, che cioè riguarda l’umanità e l’uomo nella sua interezza. La Divina Commedia, giova ripeterlo, non va interpretata come una semplice opera di letteratura, anche se carica di valenze religiose, morali e politiche (come, d’altronde, la migliore letteratura porta spesso con sé). Lo stesso Dante, quasi giunto alla fine del suo viaggio, la chiama poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra (Paradiso, XXV, 1-2). Un poema sacro, un’opera la cui origine è da ricercarsi non solo nell’uomo Dante che l’ha (tra)scritta e cesellata, ma anche altrove. Detto chiaramente, “l’ispirazione” di Dante non è da ricercarsi nella mera “creatività” umana tanto cara ai moderni, ma in un contatto con stati superiori, un contatto col divino. Mi trovo quindi d’accordo con quanto ha scritto René Guénon ne L’esoterismo di Dante (non certo, sia detto per inciso, la sua opera migliore) partendo dai rapporti tra Dante e la cultura islamica, all’epoca oggetto di feroci polemiche dal tenore sciovinista che seguirono la pubblicazione dei lavori di Miguel Asín Palacios sulle somiglianze tra la Divina Commedia e l’escatologia islamica: “per noi, invece, queste somiglianze dimostrano soltanto l’unità dottrinale di tutte le tradizioni; non c’è da stupirsi se troviamo ovunque l’espressione delle medesime verità, ma appunto, per non stupirsi occorre prima sapere che sono verità, e non invenzioni più o meno arbitrarie” (L’esoterismo di Dante, p.62).



Opere citate o utilizzate per la stesura dell'articolo


- AA.VV. (diretta da Umberto Bosco), Enciclopedia Dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1970-78. Consultabile su questa pagina.
- Dante AlighieriLa Divina Commedia, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano 1994;
- Id., La Divina Commedia, a cura di Enrico Malato, Salerno Editrice, Roma 2018;
- René Guénon, L'esoterismo di Dante, trad. it. Adelphi, Milano 2013;
- Enrico Malato (a cura di), Dizionario della Divina CommediaSalerno Editrice, Roma 2018;
- Arturo ReghiniPubblicato in «Nuovo Patto», settembre-novembre 1921; ristampato in Paganesimo, pitagorismo, massoneria a cura dell'Associazione pitagorica, Società Editrice Mantinea, Furnari (ME) 1986;
- Luigi Valli, La chiave della Divina Commedia, Luni Editrice, Milano 2017.


Crediti fotografici


- La riproduzione dell'incisione di Doré:

- La riproduzione del manoscritto Yates-Thompson 36

Commenti

  1. Concordo in pieno. In particolare sottolineo la miopia di chi, volendo elogiare un'opera artistica del passato, ne sottolinea la modernità, come se il mondo attuale fosse la misura di tutte le cose. Ed è stato un peccato che Reghini, autore pregevole per molti versi, fosse afflitto da un sentimento anticristiano così forte.

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