Umiltà e risveglio

La Storia naturale della religione è una delle opere più brillanti di David Hume. Il filosofo scozzese costella tutto il testo d’incisi con assicurazioni sulla sua fede nella verità del monoteismo cristiano, ma fin dal titolo denuncia lo scopo che si era prefisso: comporre una storia naturale della religione, riportare, cioè, l’insieme dei fenomeni religiosi a dinamiche sensibili (nel senso etimologico del termine: cioè che pertiene e che si mostra attraverso i sensi); naturali appunto.
Il punto da cui parte è la dimostrazione che, come recita il titolo del primo capitolo, Il politeismo fu la prima religione degli uomini. Nell’epoca in cui visse Hume era ancora diffusissimo in Europa il convincimento che il monoteismo fosse stata la religione primordiale dell’umanità, e che soltanto un processo di degenerazione avesse portato alle credenze politeistiche. Hume, invece, come tutti i filosofi “naturalisti” moderni, ritiene che la complessità delle concezioni (che lui attribuisce al monoteismo cristiano a paragone del politeismo dei popoli precedenti) si formi col procedere della storia umana, poiché necessita di un processo d’astrazione non attribuibile a uomini rozzi e ancora incapaci di ragionamenti raffinati.
Allan Ramsey, Ritratto di David Hume, 1766,
Edimburgo, Scottish National Portrait Gallery.
L’idea che l’umanità abbia cominciato dal basso, da uno stadio, cioè, di grossolanità e d’ignoranza è tutta moderna e informerà la mentalità dell’Occidente a partire dall’Ottocento positivista e progressivo, sostituendo la più antica visione, propria della maggior parte delle culture umane, della decadenza da uno stato iniziale di perfezione e beatitudine (come intendere questa visione, se alla lettera, storicamente, oppure come figura di una decadenza ontologica dell’essere, o in entrambi i significati, è una questione che esula dallo scopo che mi sono prefisso in questo articolo).
A sforzarsi di leggere, e neanche troppo, tra le righe dell’opera di Hume, uomo dei Lumi (quindi ancora non del tutto ascrivibile a quella visione progressiva che avrebbe avvinto la maggior parte degli spiriti europei durante il secolo seguente, a partire dai suoi connazionali), ci si renderà però conto che la sua visione è meno univoca ed “evolutiva” di quanto si potrebbe pensare. In un certo senso c’è stata una degenerazione col passaggio dal politeismo al monoteismo: una degenerazione morale. Nel X capitolo della Storia naturale della religione scrive infatti:

Quando la divinità vien rappresentata come alcunché di infinitamente superiore al genere umano, questa credenza – quantunque giusta – può, unita ai terrori superstiziosi, sommergere lo spirito umano nell’umiliazione e nell’avvilimento più profondi, e presentargli le virtù monacali della mortificazione, della penitenza e dell’umiltà e della sofferenza passiva come le sole doti accettabili.

Al di là dell’inciso in cui professa la sua (presunta) fede nella credenza in una divinità “infinitamente superiore al genere umano”, Hume ci dice che quella credenza è, in realtà, piuttosto perniciosa per la vita associata degli uomini. Così, infatti, continua:

Ma se gli dei sono concepiti come superiori agli uomini soltanto di poco, e si crede che alcuni di essi siano stati promossi da tale rango inferiore, ci troviamo molto più a nostro agio quando ci rivolgiamo ad essi, e possiamo anche – senza empietà – aspirare talvolta ad emularli ed a rivaleggiare con loro. Di qui l’attività, la vivacità, il coraggio, la magnanimità, l’amore per la libertà, e tutte le virtù che fanno grande un popolo.

Gli inizi, in questo caso, sono superiori agli stadi successivi, e i popoli politeisti sono migliori di quelli monoteisti, fiaccati da una credenza che li mortifica e li avvilisce. Più vicini allo stato di natura, questi popoli sono meno corrotti non tanto dal procedere della civilizzazione, quanto da un suo prodotto deviato. Il naturalismo humiano si manifesta qui chiaramente: quel dio infinito e inconcepibile del cristianesimo è una degenerazione perché ha perduto la maggior parte del legame con la concretezza della vita, pur mantenendo certi tratti antropomorfici che mal si conciliano con la presunta infinità della sua natura (nei Dialoghi sulla religione naturale Hume si dedicherà a smontare una per una tutte le prove filosofiche dell’esistenza di Dio).

In questo passo si trova un’eco di quello che fu il culto dell’Antichità classica in Europa tra il Rinascimento e il Settecento e il suo opporla ai presunti Secoli bui che avrebbero seguito la caduta di Roma. La polemica anticristiana portò Hume (e numerosissimi altri pensatori moderni) a visioni semplicistiche e facili estremizzazioni, come quella presente nel passo citato, con cui si dismise una civiltà millenaria e i suoi valori, perdendo così quanto c’era di buono in essi. Non solo: un altro errore tipico della mentalità moderna è stato non solo quello di contrapporre la “ragione” moderna al “fideismo” medievale, ma di leggere tutte le altra culture umane in base a questa dicotomia. Dicotomia che sussiste tutt’oggi, benché ormai svuotata della maggior parte del suo significato.

Hume intitola Orgoglio e umiltà la Parte I del Libro II del suo Trattato della natura umana. Hume tratta insieme le due passioni, perché le ritiene, benché opposte, speculari: si riferiscono entrambe al medesimo oggetto, l’io. «È proprio qui, infatti, che si fissa il nostro sguardo quando siamo mossi da una di queste passioni». Soltanto quando riferiamo un determinato soggetto a noi stessi sorge o l’una o l’altra passione. «Quando non consideriamo l’io, non c’è spazio né per l’orgoglio né per l’umiltà».
Se l’oggetto delle due passioni è l’io, i soggetti che le causano sono innumerevoli. Il causare orgoglio o umiltà dipende dai sentimenti che questi soggetti provocano in noi: sarà orgoglio, se si tratterà di piacere, sarà umiltà se, invece, proveremo dolore. Un esempio fatto da Hume basterà a chiarire il concetto: se, considerato il nostro aspetto fisico, lo troveremo bello, proveremo orgoglio, se brutto o, peggio, deforme, umiltà. Nel primo caso ne gioiremo, nel secondo, invece, ne soffriremo.
Antonio del Pollaiolo, Ercole e l'Idra, 1475, Firenze, 
Galleria degli Uffizi.
Per completare questo breve e approssimativo quadro della teoria humeiana bisogna riportare la definizione che dà di io e il risultato che ritiene d’aver raggiunto con le sue argomentazioni. L’io è «la successione di idee e impressioni collegate, di cui abbiamo intimamente memoria e coscienza». È a questa tremolante immagine e alla valutazione che di essa diamo che la mente rapporterebbe quei soggetti che cagionerebbero in noi i sentimenti di orgoglio e umiltà.
Alla fine della parte dedicata a questo soggetto, Hume ritiene che la sua teoria si applichi non soltanto all’uomo, ma a tutti gli animali: «siccome le cause che sollecitano queste passioni sono perfettamente identiche, noi possiamo correttamente concludere che queste cause agiscono allo stesso modo in tutte le creature animali».

In questa teoria è racchiusa tutta l’età moderna (mi riferisco alla modernità vincente, quella scientista e positivista, ossia la modernità anglosassone, che nel corso del Novecento ha trionfato sulle altre correnti presenti in seno al mondo occidentale), tutto il suo naturalismo, tutta la sua carica antireligiosa e antimetafisica, tutta la sua antropologia filosofica che vede nell’uomo un essere puramente naturale (ossia sensibile) al pari di tutti gli altri animali, dei quali condivide non solo l’essenza, ma anche il destino: il dispiegarsi in dinamiche puramente immanenti.
I soggetti che causano i sentimenti di orgoglio e umiltà sono quindi tutti naturali, legati a dinamiche sensibili. La citazione della Storia naturale della religione sopra riportata: che il dio del monoteismo, con la sua infinità, la sua onnipotenza, la sua onniscienza, prostra gli animi dei fedeli perché inimitabile, mentre gli dei politeisti, col loro antropomorfismo, li ringagliardiscono, perché compiono atti cui i mortali possono aspirare di ripetere, è piuttosto chiara in proposito. Non solo le azioni sono sensibili, ma anche le loro ragioni sono completamente inserite in questo livello di realtà, e gli uomini che le compiono sono intellegibili osservando quanto accade in “concreto”, senza bisogno di riferirsi a presunti altri piani dell’essere. L’uomo tutto si spiega considerandolo un essere naturale, e anche i suoi desideri, le sue aspirazioni, i suoi obiettivi non guardano oltre. Non c’è “sete d’infinito”, brama di “riunirsi al divino”, aspirazione a “ritornare all’Uno” ecc. Si tratta di desideri mal indirizzati, generatisi nel corso dei secoli perché gli uomini, incapaci di spiegare razionalmente degli accadimenti che li circondavano, s’inventarono divinità d’ogni specie. È all’interno di questa visione del reale che Hume può giudicare della perniciosità e dell’utilità d’una religione a seconda degli effetti morali e civili che essa cagiona sulla vita “concreta” di un determinato popolo.

Come abbiamo visto, Hume ritiene che i sentimenti di orgoglio e umiltà sorgano soltanto in relazione all’io, all’idea che ogni uomo ha di sé stesso, alla sua peculiare individualità. Ma se si esce dall’angusta visione “naturalistica” moderna, ci renderemo conto che il sentimento dell’umiltà non è un sentimento meramente negativo, e che esso non porta con sé sempre e soltanto dolore, ma anche consapevolezza e che può essere il principio d’un cammino che può condurre un uomo lontano e più in alto.

Nel canto XI del Purgatorio è narrato l’incontro di Dante con Oderisi da Gubbio, un celebre miniatore del suo tempo. Siamo nel girone dei superbi. Dante, dopo aver parlato con Omberto Aldobrandeschi, un gran signore della celebre e potente famiglia che aveva dominato la Maremma per diversi secoli, è riconosciuto e chiamato da un’altra anima:

"Oh!", diss’io lui, "non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?". 
"Frate", diss’elli, "più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte. 
Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
de l’eccellenza ove mio core intese. 
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio. 
Oh vana gloria de l'umane posse!
com' poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l'etati grosse! 
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura. 
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido. 
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato. 
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ’pappo’ e ’l ’dindi’,  
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.  
Colui che del cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia,  
ond’era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta. 
La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba."
(Purgatorio, vv. 79-117).

Dante, nell’appressarsi all’anima che lo aveva chiamato con così tanta premura (e videmi e conobbemi e chiamava, v. 76), riconosce il miniatore umbro, e lo saluta ricordandone il valore come artista. Oderisi, schiacciato dal peso che i superbi, per contrappasso, debbono portare per sgravarsi l’anima da quel perniciosissimo peccato (il sasso che la cervice mia superba doma, aveva detto Omberto Aldobrandeschi al v. 54), ribatte ai complimenti con parole che mai gli sarebbero state strappate in vita: sì, quello sono, ma c’è già chi mi ha superato nell’arte che praticai da vivo. L’amore dell’eccellenza, che aveva avvinto Oderisi durante quasi tutta la sua esistenza, è riconosciuto finalmente come assurdo. Verrà sempre qualcuno che ci supererà in bravura, ma soprattutto il tempo prima o poi farà svanire dalla mente degli uomini il ricordo delle nostre opere (Colui che del cammin sì poco piglia/ dinanzi a me, Toscana sonò tutta;/ e ora a pena in Siena sen pispiglia, dice Oderisi di Provenzano Salvani). Amare sé stessi fino all’idolatria, insuperbirsi delle proprie opere o delle proprie azioni, dedicarsi anima e corpo a eccellere nella vita è insensato: ci si vota all’effimero, si spreca l’intera esistenza per qualcosa che, considerandolo bene, è tanto caduco quanto noi stessi come individui, se non di più.

Gustave Doré, Dante tra i suberbi, 1861.
Tuo vero dir m’incora bona umiltà, dice Dante al miniatore umbro dopo che ha finito di parlare. Questa umiltà differisce da quella di cui parla Hume, e, soprattutto, ha (o, meglio, potrebbe avere) un effetto ben diverso sulla vita degli uomini, rispetto alla mortificazione e all’avvilimento denunciati dal filosofo scozzese come conseguenze delle “virtù monacali”. È diversa perché non considera soltanto l’uomo nella sua individualità, ma la condizione ontologica dell’essere umano quando è inteso come un essere avente bisogni puramente sensibili, naturali, alla stregua degli altri animali. Quest’umiltà, questa percezione della finitezza e della caducità dell’uomo e delle sue opere nel mondo, può, certo, portare alla disperazione, ma può essere anche il principio, appunto, di un cammino d’elevazione. Se tutto quello che facciamo nel mondo e per il mondo è destinato presto o tardi a svanire, perché dannarcisi, perché consumarvisi? Non sarà forse meglio intraprendere un altro cammino, un cammino che parta appunto dal riconoscimento della nostra finitudine sia come specie sia come individui? Il discorso di Oderisi infatti ha questo duplice significato: le sue opere, morto pur da così poco tempo, sono già state superate da quelle di Franco Bolognese; e se anche, per assurdo, mai non lo fossero, il tempo prima o poi ne avrebbe cancellato il ricordo. È il destino degli individui e di tutto ciò che fanno per eccellere tra i loro simili.

L’umiltà, tuttavia, è un valore che non si limita a mostrare all’uomo la sua condizione ontologica come essere naturale. Agisce anche ad altri livelli, a prima vista meno “generali”, ma, a guardar bene, non meno importanti affinché un uomo incominci a scrollarsi di dosso il gravame d’un io che lo avvince e lo inganna. Un uomo superbo e orgoglioso, gonfio di sé e del proprio stato, più difficilmente si farà oggetto di sé stesso. Persuaso della sua grandezza, non andrà a indagarne i limiti, perché, tronfio, non sa né sospetta d’averne. L’umile, invece, è conscio del proprio stato e, quindi, in quanto uomo, delle proprie mancanze. Sarà dunque più vigile, più attento ai propri pensieri e alle proprie azioni. Inoltre, e non è cosa da poco, sarà più portato a considerare i pensieri e le opinioni altrui, ben avendo chiari i propri limiti. L’apertura verso l’altro è sempre un atto d’umiltà. Implica riconoscere che i propri pensieri, i propri valori e le proprie convinzioni potrebbero essere parziali e, perfino, sbagliati.
L’umiltà, insomma, è rischiosa e richiede coraggio. E non lo è tanto per quella prostrazione che è più un effetto della mortificazione, quanto perché le convinzioni e i pregiudizi, ma anche la certezza adamantina delle proprie capacità può venire meno.

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Matteo, 5, 3). Questa è la prima delle Beatitudini del Vangelo secondo Matteo. Quello che colpisce è la definizione dei primi beati: i poveri in spirito. Nel Vangelo secondo Luca, infatti, si legge: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Luca, 6, 20). Qui sono dichiarati beati i poveri, senza specificare la natura di questa povertà. Matteo, invece, vi aggiunge in spirito. Non quindi la semplice povertà materiale, l’indigenza, ma una povertà interiore, una povertà che non è detto corrisponda con lo stato delle sostanze materiali di chi la viva. Il povero in spirito è umile, è colui che ha preso coscienza della transitorietà ontologica delle cose umane e di sé stesso come individuo, e che, di conseguenza, non attribuirà loro un valore assoluto, nel senso metafisico del termine, cioè privo di limiti ed esistente di per sé, quindi degno d’essere smaniosamente cercato perché garantirebbe quella pienezza e quella completezza che soltanto ciò che è infinito può dare. Per usare ancora un’immagine biblica: il povero in spirito non si prostrerà di fronte a un vitello d’oro.
Ma i nostri contemporanei si sentiranno certo al sicuro, gonfi dei loro progressi, della loro grado superiore di civiltà, di fronte a un pericolo simile. Come potrebbero cercare sostituti di Dio, quando di esso è un bel po’ che se ne sono sbarazzati? «Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”» (Esodo, 32, 8). Come potrebbero, i nostri contemporanei, riconoscersi in questo passo delle Scritture? Come potrebbero immaginarsi non dico d’affidarsi a un vitello d’oro, ma anche a un qualunque dio, nel momento del bisogno? Non sarà forse al loro ingegno e a suoi prodotti che rivolgeranno le loro speranze? Eppure, se una delle molteplici definizioni del divino è ciò che dà senso alla realtà e, quindi, all’agire dell’uomo, si può davvero affermare che i nostri contemporanei sono caduti nell’idolatria, e nella forma più bassa, perché è un’idolatria doppiamente inconsapevole: non sanno d’aver sostituito il divino con degli oggetti, e non sanno neppure di starli adorando. Almeno il popolo d’Israele, disperato nell’uscita dall’Egitto, sapeva quello che faceva anche nella perversione. Mentre i nostri contemporanei ne sono completamente all’oscuro. A cosa mi riferisco? Mi riferisco al feticismo degli oggetti e dei marchi che impegna le menti e accende gli animi degli occidentali contemporanei. Basta guardarsi intorno: centinaia e centinaia di persone in coda per nottate intere di fronte a un negozio per accaparrarsi per primi un capo d’abbigliamento a “tiratura limitata”; centinaia, se non migliaia, di euro ogni anno spesi per avere tra le mani l’ultimo modello di telefono cellulare anche da coloro che, per averlo, devono impegnare lo stipendio d’un intero mese di lavoro; uomini ridotti a muli che trasportano buste su buste, sulle quali non manca certo il marchio del produttore dell’oggetto che hanno appena acquistato, o del negozio localmente prestigioso che gliel’ha venduto, da sfoggiare per le strade di una città o, di recente, per le false viuzze di un outlet posticcio;  ma soprattutto coloro che finiscono per identificarsi in un determinato marchio, tanto da ingaggiare discussioni violentissime con i sostenitori del marchio concorrente. Quest’ultimo caso capita spesso nei forum o in altri luoghi virtuali di discussione.
Hieronymus Bosch, I Sette peccati capitali, particolare
della Superbia, 
1500-25, Madrid, Museo del Prado.
Talvolta la parzialità per un determinato marchio è tale che alcuni dei partecipanti alla discussione, sorpresi da tanto faziosa animosità, si chiedono se il tale o il tal altro sia prezzolato da uno dei marchi che difendono a spada tratta fino a negare ciecamente l’evidenza. Magari!, dico io. Magari lo facessero perché stipendiati da uno dei produttori. L’amara verità – tanto in basso è giunta la vita spirituale dell’Occidente contemporaneo – e che sono dei veri seguaci, dei veri adepti! Le varie aziende non hanno bisogno di pagare persone che si fingano fanatici del marchio (benché non mi stupirebbe se si venisse a sapere che di tanto in tanto ingaggiano degli agitatori virtuali): la faziosità s’insinua spontaneamente negli animi degli Occidentali “progrediti” che si sono sbarazzati delle “superstizioni” premoderne (non dirò del tifo calcistico, perché, pur raggiungendo punte inaudite di fanatismo, ha, rispetto agli eccessi sopraccitati, l’attenuante, se così si può dire, di essere indirizzato a compagini costituite da uomini, non a cose. Per carità, quella devozione sfrenata, quella passione smodata che ha portato e porta tutt’oggi perfino alla violenza è malposta, ma i calciatori sono pur sempre esseri umani, benché gli sport siano ormai diventati delle attività economiche a tutti gli effetti, e di proporzioni gigantesche in alcuni casi). Perché la faziosità, l’assurdo senso d’appartenenza a un marchio commerciale, è uno dei modi in cui gli animi degli occidentali compensano la perdita di strutture metafisico-religiose di senso. La ricerca dell’identità mancante, quell’identità che, a differenza delle assurde pretese delle filosofie esistenzialiste novecentesche che hanno seguito il risibile esempio di Nietzsche, non può autofondarsi, non può essere un individuo – un essere, cioè,  parziale e transeunte (accidentale, se considerato di per sé, indipendentemente da ciò in cui riposa e che lo fonda) a darsi un’identità e, quindi, un senso. Donde prima le catastrofiche adesioni a filosofie “politiche” materialistiche, tipo il comunismo; e, oggi, dopo la tabula rasa di ogni altra alternativa ideologica fatta dal capitalismo trionfante, le capricciose, meschine e ridicole compensazioni cui assistiamo oggi. Fino all’estrema vuotezza e vanità, il narcisismo in cui, purtroppo, sempre più occidentali sembrano precipitare.

Urge l’umiltà. Urge l’umiltà per sgravarsi da un fardello che ci schiaccia come singoli e come civiltà. Pochi, ahimè, in quest’epoca di retorica trionfalista dell’individuo, saranno in grado di farlo, spronati in ogni momento a incensarsi e a esaltarsi, o anche solo a concentrare l’attenzione su di sé, anche quando non ce ne sarebbe alcun motivo; e allevati con l’idea che la nostra sia la Civiltà, e che non vi siano altre conoscenze al di là di quelle scientifiche, con tutto quello che ciò comporta.
La porta, che è sempre stata stretta, inaccessibile per la maggior parte degli uomini, oggi è diventata più sottile della cruna d’un ago.


[Dante Alighieri, La Divina Commedia, Commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano 2007; La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2016; David Hume, Storia naturale della religione, Laterza, Roma-Bari, 1999; Id., Trattato della natura umana, Bompiani, Milano 2001; il ritratto di Hume, il dipinto del Pollaiuolo e il particolare del dipinto di Bosch sono tratti dalla Web Gallery of Art; l'illustrazione di Doré della Divina Commedia dall'articolo Purgatorio - Canto undicesimo, dell'edizione italiana di Wikipedia]

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