Civiltà, civilizzazione, incivilimento

Ebbi la ventura di scrivere la tesi di dottorato su Auguste Comte. Ventura è, in questo caso, una vox media, che si determina a seconda del punto di vista da cui guardo a quell'epoca della mia vita. Mentre la scrivevo, l'avrei certo chiamata una mala ventura, tanto quel filosofo era ed è lontano anzitutto dalla mia sensibilità, poi dalla visione del mondo che negli anni sono andato maturando. Adesso, a distanza d’un decennio dall'inizio del dottorato (era l'autunno del 2005 quando lo cominciai), non credo sia stata solo una sfortuna l'aver dedicato così tanto tempo allo studio di Comte. Al contrario, mi ha giovato. Non mi sono, negli anni, convertito al positivismo, né ho cominciato ad apprezzare le doti di prosatore o di finissimo ragionatore di Comte (benché sia tra quelli che lo ritengono un filosofo tutt'altro che di secondo piano, e non solo per l'indubbia importanza storica). No, aver studiato Comte, averne sviscerato il prolisso, pedante e pomposo Corso di filosofia positiva mi ha permesso d'approfondire la conoscenza del mondo contemporaneo a un livello che altrimenti non avrei raggiunto. Perché il mondo contemporaneo, dominato e plasmato dagli anglosassoni e, in particolare, dagli Stati Uniti d'America, è positivista e comtiano, fatta la non banale eccezione per la forma di stato, la quale è, per nostra fortuna, lontana da quella folle e un po' strampalata sociocrazia che troppo ricorda le funeste dittature novecentesche. Il mondo contemporaneo è positivista e comtiano, dicevo, per la cieca ed esclusiva fiducia nella scienza, l'unico sapere per l’uomo occidentale degno di questo nome; e per la fede nelle magnifiche sorti e progressive che attendono l’umanità, indipendentemente dagli intoppi in cui essa può incorrere, grazie al sempre maggiore potere che l’uomo acquisisce sulla natura (anche i guasti causati dal progresso sono presentati alla stregua d'incidenti di percorso, come, per esempio, quello gravissimo del cambiamento climatico. L’umanità, tuttavia, se s’affiderà alla parte migliore di sé – gli scienziati – potrà superarlo, ottenendone, anzi, un miglioramento generale delle condizioni di vita proprio grazie a quegli aggiustamenti fatti seguendo le indicazioni della scienza). Lo slancio progressivo dell’umanità, che ancora due secoli fa era confinato alla sola parte nordoccidentale dell’Europa, s’è allargato e continua ad allargarsi a tutti gli angoli del globo. L’Occidente, elevando sé stesso, ha fornito l’umanità di quegli strumenti conoscitivi e tecnici (ma anche morali) per innalzarsi tutta nel suo complesso.
Questo è quello che gli Occidentali, in particolare dopo la caduta dell’Unione Sovietica, amano ripetersi – la maggior parte dei quali, va detto, in buona fede, tanto ne sono persuasi (dopo il 1945 l’URSS fu l’unica alternativa, nell'Europa capitalista soprattutto a livello d’immaginario, al modello occidentale. Tuttavia il comunismo sovietico condivideva con l’Occidente la forma delle sorti dell’umanità: uno sviluppo illimitato che innalzasse tutti dallo stato di miseria, condizione transitoria, ma non destino per la maggior parte degli uomini; e lo strumento, ovvero la conoscenza scientifica, sebbene nelle discipline umanistiche diversamente declinata. Sarebbe interessante approfondire il ruolo che l’Unione Sovietica ebbe, come sola alternativa, come una sorta di altrove “esotico”, nel mantenere accesa la fiamma della critica e della riflessione, quand’anche si cessò di sperare, disillusi e spaventati dalle notizie che giungevano d’oltrecortina, che anche l’Europa occidentale si “russificasse”). La luce della civiltà occidentale giunge ormai incontrastata a tutta l’umanità. O forse sarebbe meglio dire la luce della civilizzazione occidentale.

William Turner, Pioggia, Vapore, Velocità, 1844,
National Gallery, Londra.
Nella storia della filosofia occidentale alcuni filosofi hanno creduto (mi viene in mente Martin Heidegger) che la lingua del pensatore determini anche la qualità del suo pensiero. Altri (Giordano Bruno, per esempio), combatterono l’idea che vi siano lingue più adatte di altre al pensiero, convinti che la natura delle cose, essendo una ed eternamente uguale a sé stessa, fosse afferrabile da qualunque filosofo profondo, e non facesse differenza tra greci, latini, tedeschi e italiani. Ora, la questione è meno sciocca di quanto possa apparire, investendo il concetto di verità e il rapporto tra il pensiero e le cose. Non intendo approfondirla, né certo sarei in grado di risolverla. Credo tuttavia che, se la lingua non ingabbia il pensiero entro i propri recinti, non si può negare che lo influenzi profondamente.
In francese e in inglese, le lingue delle nazioni che più hanno plasmato il mondo moderno, la parola con cui si traduce l’italiano civiltà è civilisation (in entrambe le lingue, benché in inglese sia più frequente la forma civilization). Andiamo a vedere le definizioni dei dizionari.
  1. Emploi imperfectif. Fait pour un peuple de quitter une condition primitive (un état de nature) pour progresser dans le domaine des mœurs, des connaissances, des idées ;
  2.  P. méton. La civilisation étant considérée comme un idéal dynamique, comme un mouvement universel vers une certaine perfection, comme une force de développement matériel, intellectuel, social ;
  3.  Emploi perfectif.
a.   État plus ou moins stable (durable) d'une société qui, ayant quitté l'état de nature, a acquis un haut développement ;
b.   Ensemble transmissible des valeurs (intellectuelles, spirituelles, artistiques) et des connaissances scientifiques ou réalisations techniques qui caractérisent une étape des progrès d'une société en évolution.
c.   P. méton. Milieu humain que constitue un tel ensemble.

Il Trésor distingue innanzitutto tra l’uso imperfettivo e perfettivo del termine, ossia, quando civilisation indica un alcunché in divenire, oppure quando indica qualcosa di compiuto, delimitato e conchiuso (perfetto, in latino, ha anzitutto questo significato; che nelle lingue moderne valga come “eccellente”, è una chiara influenza della visione dell’antichità classica della perfezione, che aveva in sé l’idea di finitezza e compiutezza). Nell’uso imperfettivo, civilisation può indicare il movimento di qualsiasi società che esca dallo “stato di natura”, oppure, ed è questo il significato che ha prevalso nel pensiero moderno, come un movimento unico, universale, proprio di tutta l’umanità. Nell’uso perfettivo, invece, civilisation indica uno stadio più o meno durevole dello sviluppo di una data società (che non è necessariamente un’evoluzione indefinita, ma che può essere, ed è, anzi, più spesso, simile allo sviluppo d’una pianta e d’un animale, che nasce, cresce, declina e muore).
Passiamo alla lingua inglese. L’Oxford Dictionary riporta, alla voce civilization:
  1. The stage of human social development and organization which is considered most advanced;
  2. The process by which a society or place reaches an advanced stage of social development and organization;
  3. The society, culture, and way of life of a particular area;
  4. The comfort and convenience of modern life, regarded as available only in towns and cities.
A parte la quarta accezione, non presente nella lunga voce del Trésor de langue française, le due parole sono sovrapponibili. Anche in inglese civilisation può indicare sia il complesso di caratteri religiosi, culturali, economici, di costume ecc. che caratterizzano una data società in un determinato momento storico, sia il movimento d’uscita di un popolo da un ipotetico “stato di natura” o il movimento progressivo e indefinito dell’umanità considerata come un tutto. Trovo interessante che l’Oxford Dictionary riporti quella che è l’accezione oggi è più usata nei mezzi di comunicazione di massa, nei dibattiti politici e in quelli “culturali”: la prima (“lo stadio dello sviluppo dell’umanità che è considerato il più avanzato”), che resta invece implicita nella voce del dizionario francese. La civilisation è quella occidentale, segnatamente, oggi, quella dei paesi anglosassoni, germanici e scandinavi (mentre i paesi mediterranei sono visti, quando sono guardati paternalisticamente, come dei discoli da raddrizzare perché non si sono decisi a entrare una volta per tutte nell’età adulta). Così l’Occidente rappresenta la Civiltà che s’oppone, a seconda dei momenti, a questa o a quella barbarie, non importa se sono state le azioni, presenti o passate, degli occidentali stessi a farla sorgere (e qui mi riferisco al caos mediorientale, frutto della politica secolare degli inglesi e dei francesi, prima, e degli americani, poi). Insomma, nel sentire comune, e non solo del popolino, ma anche dei politici e di buona parte degli intellettuali, è quella occidentale l’unica civiltà, mentre le altre sono resti di civiltà ormai sorpassate dallo sviluppo impetuoso di quella europea, che con le sue mirabilia scientifiche e tecniche e con i suoi “diritti umani universali” ha finalmente messo l’umanità sul binario dell’unico progresso per essa possibile – o, meglio, sulla retta via verso l’emancipazione e la liberazione dalle tenebre, dalla miseria e dalle barbarie.

Umberto Boccioni, Stati d'animo, Serie I. Gli addii, 1911,
Museum of Modern Art, New York.
Non so se la lingua ingabbi il pensiero. Certo è singolare che nelle lingue delle nazioni che hanno più plasmato la visione contemporanea del mondo una parola fondamentale come civilisation sia polisemica in modo tale da far perdere facilmente di vista che la propria civiltà possa essere una tra le tante. E lo fa proprio perché il termine, com'è ben messo in luce dal Trésor de la langue française, non distingue tra l’essere e il divenire, tra la (relativa) compiutezza e il continuo mutamento, ponendo, anzi, visto il suffisso, l’accento sul divenire, come se la caratteristica intrinseca d’ogni civiltà, della Civiltà, anzi, fosse proprio quella. E qual è quella caratteristica della civiltà occidentale che tanto impressionava, nel bene e nel male, le altre culture, se non il dinamismo parossistico del fare e dell’agire, il movimento senza posa, un’inquietudine che non solo non trova la pace, ma che soprattutto l’aborrisce come segno di pigrizia, di regressione, o, peggio, di morte? Le trasformazioni cui le società vanno incontro col passare del tempo nella nostra civiltà sono diventate progresso ed evoluzione. E le nostre dinamiche sono ormai il paradigma d’ogni civiltà, tanto che dalla forma della vita d’una civiltà s’è passati anche al contenuto, a ciò che si crede non faccia mai arrestare il movimento progressivo: la scienza, la tecnica, l’economia capitalistica. Civiltà è civilizzazione, il movimento continuo e senza fine d’uscita da un presunto “stato di natura”, da quelle caverne in cui gli uomini di allora a mala pena si distinguevano da quelle belve che rappresentavano il loro unico sostentamento.

In italiano, invece, abbiamo addirittura tre termini per indicare le varie accezioni di civilisation: civiltà, civilizzazione, incivilimento. Andiamo, anche in questo caso, a leggerne le definizioni.
  1. La forma particolare con cui si manifesta la vita materiale, sociale e spirituale d’un popolo (eventualmente di più popoli uniti in stretta relazione) – sia in tutta la durata della sua esistenza sia in un particolare periodo della sua evoluzione storica – o anche la vita di un’età, di un’epoca. Sotto l’aspetto storico e etnologico, il termine è riferito non soltanto ai popoli socialmente più evoluti della storia lontana o recente, ma anche ai popoli primitivi o meno evoluti, estendendosi a designare anche le varie forme di vita di popoli preistorici, ricostruite per merito della paletnologia e dell’archeologia. Con questo sign. più ampio e più "neutrale", il termine si approssima a quello di cultura (che ha avuto peraltro nella letteratura scientifica definizioni più precise). 
  2. Nell’uso com. e più tradizionale, è spesso sinon. di progresso, in opposizione a barbarie, per indicare da un lato l’insieme delle conquiste dell’uomo sulla natura, dall'altro un certo grado di perfezione nell'ordinamento sociale, nelle istituzioni, in tutto ciò che, nella vita di un popolo o di una società, è suscettibile di miglioramento.
  3. In rapporto a un altro sign. dell’agg. civile, urbanità, cortesia, buona educazione: trattare, parlare, comportarsi con c.
Alla voce civilizzazione, invece:
  1. Il rendere o il divenire civile, cioè il fatto di dare o di acquistare condizioni materiali, sociali, culturali di vita più evolute; incivilimento. 
  2. Con sign. recente, passaggio dallo stato militare a quello civile, soprattutto con riguardo al trattamento sindacale e normativo di personale militare addetto a funzioni e servizî permanenti di pubblico interesse.
E a quella incivilimento, infine:
  • L’incivilire o l’incivilirsi; progresso verso uno stadio più elevato di civiltà nell'ordinamento, nelle istituzioni e nelle consuetudini sociali.
Come si noterà, anche l’italiano civiltà ha una polisemia non troppo dissimile da quella di civilisation. Tuttavia, tale polisemia è riservata all'uso comune del termine, e a quel parlare e scrivere meno preciso e sorvegliato che caratterizza la vita quotidiana e il deprimente dibattito pubblico. Chi non voglia cedere allo scadimento della lingua, e ambisca a una riflessione precisa e rigorosa, ha a disposizione altri due termini: incivilimento e civilizzazione. Incivilimento è un termine che può riferirsi sia allo sviluppo di una persona, sia a quello di una società. In esso è presente l’idea di miglioramento e progresso di civilisation. Anche civilizzazione ha un significato simile, ed è di evidente origine francese. Lo si potrebbe pensare un termine superfluo, vista la preesistenza d’incivilimento. E tuttavia l’abbondanza di termini, quand'è accompagnata dalla chiarezza del pensiero, mi sembra che dovrebbe essere sempre la benvenuta, perché permette di meglio distinguere fenomeni, idee e, soprattutto nel caso di civilizzazione, visioni del mondo.

[Le immagini sono tratte dalla Web Gallery of Art (Turner) e dal Mark Arden's Artchive (Boccioni).]

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