Storia e passato

Charles Laughton nei panni di Sir Wilfrid Robarts.
In una scena di Testimone d'accusa (Witness for the prosecution), capolavoro di Billy Wilder tratto da una commedia di Agatha Christie, l'avvocato Sir Wilfrid Robarts (Charles Laughton) esorta il suo assistito, Leonard Vole (Tyrone Power), a non abbattersi perché sta per essere arrestato: "Non è disonorevole essere arrestati, signor Vole: re, primi ministri, arcivescovi, perfino degli avvocati sono stati alla sbarra" (There is no disgrace in be arrested, Mr. Vole: kings, prime ministers, archbishops, even barristers have stood in the dock). La prima volta che vidi la pellicola non prestai attenzione a questa scena. Ero troppo entusiasta del film, sicuramente uno dei migliori di Wilder. Durante le successive visioni, invece, cominciai a soffermarmici. C'era qualcosa, in quella battuta di Laughton, che destava la mia ammirazione. Dapprincipio avevo pensato al modo in cui l'aveva pronunciata: la dizione, le espressioni del volto, lo sguardo (come il delizioso compiacimento gigionesco di quanto dice "even barristers"). Poi, invece, ho capito che non aveva niente a che fare con la recitazione di Laughton o col film di Wilder, ma con la stessa storia inglese. Era la continuità storica dell'Inghilterra, condensata in quella battuta, che ammiravo. La continuità giuridica e istituzionale, la continuità dei costumi e delle consuetudini, la continuità di una tradizione nazionale che, seppur mai immota o stantia, non aveva mai conosciuto violente soluzioni di continuità, non aveva conosciuto palingenesi né rimozioni. Un inglese può guardare alla storia della sua nazione come guarda al proprio passato: tutto il presente del proprio paese è riconosciuto come un fluire ininterrotto delle azioni dei propri antenati, così come il suo presente d'individuo è frutto delle proprie azioni. La storia dell'Inghilterra è il passato dell'Inghilterra.

La Penisola italiana nel 1843.
"Fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani". La celeberrima frase, attribuita a Massimo D'Azeglio, viene ripetuta in Italia da più d'un secolo. Quello che mi sorprende, tuttavia, non è la frequenza, ma l'intenzione con cui la si riporta: non c'è sconforto o smarrimento in chi la cita, ma rammarico perché ancora quel compito non è stato portato a termine. Fare gli italiani: dai risorgimentali ai fascisti ai repubblicani trasformare gli abitanti della Penisola in italiani è sempre stata una necessità, un compito che rientra nelle possibilità di una classe dirigente, un compito tanto urgente quanto, alla prova dei fatti, sfuggente.
La penisola italiana, prima del 1860, era divisa, com'è noto, in diversi stati e staterelli, alcuni sovrani, altri direttamente o indirettamente controllati da potenze straniere. Le campagne sabaude, nel giro di un ventennio, la unirono in un'unica entità statuale, il Regno d'Italia, con capitale, dal 1870, Roma. Ora, quegli stati in cui la Penisola era suddivisa, erano, sì, frutto di almeno tre secoli di politica delle potenze europee (dalle Guerre d'Italia cinquecentesche tra francesi e spagnoli alle Guerre di successione settecentesche, dalle Guerre rivoluzionarie francesi al Congresso di Vienna), ma riflettevano anche lo stato concreto delle popolazioni delle varie parti d'Italia. La questione della lingua era una delle spie più evidenti delle profonde differenze tra le varie popolazioni italiani. "Supponete dunque" scriveva Alessandro Manzoni "che ci troviamo cinque o sei milanesi in una casa, dove stiam discorrendo in milanese, del più e del meno. Capita uno; e presenta un piemontese, o veneziano, o un bolognese, o un napoletano, o un genovese; e, come vuol creanza, si smette di parlare milanese, e si parla italiano. Dite voi se il discorso cammina come prima; dite se non dovremo ora servirci di un vocabolario generico e approssimativo [...] ora aiutarci con una perifrasi, e descrivere, dove prima non s'avrebbe avuto far altro che nominare; ora tirare a indovinare, dove prima s'era certi del vocabolo che si doveva usare, anzi non ci si pensava, veniva da sé; ora adoperare per disperati il vocabolo milanese, correggendolo con: come si dice da noi." Le differenze, ovviamente, non si limitavano alla lingua: costumi, usanze, istituzioni, leggi, ecc. Tutto differiva, in certi casi in maniera rilevantissima, da uno stato all'altro della Penisola. Quelle suddivisioni territoriali non erano, insomma, suddivisioni astratte come quelle, che so, che tracciarono in Medio-Oriente Francia e Inghilterra all'indomani della Prima guerra mondiale con l'accordo Sykes-Picot, ma riflettevano, in maniera più o meno corretta, lo differenze esistenti tra le varie popolazioni italiane. Solo un elemento accomunava tutti gli abitanti della Penisola: la religione cattolica. Il nuovo Stato unitario, tuttavia, era nato in opposizione alla Chiesa, di cui la Questione romana era la manifestazione più evidente, ma, forse, non quella più importante. L'Italia post-unitaria si usa chiamarla liberale non per caso: fu una compagine statale laica e anticlericale, in cui l'opposizione alla Chiesa cattolica andava ben al di là del semplice problema di Roma capitale o del potere temporale dei papi, per altro risolti gordianamente con la Breccia di Porta Pia. Erano due visioni del modo tra loro in conflitto: il neonato Stato italiano aveva come faro la Francia illuminista e progressista, con tutti i distinguo del caso, tra cui la questione del suffragio e dell'accesso al potere. Si opponeva, insomma, in via di principio al cattolicesimo romano. Così l'unico vero elemento unificatore delle popolazioni italiane fu non solo messo da parte, ma anche avversato, arrivando a presentare la storia italiana dai Longobardi in poi come la storia di un popolo la cui unione era stata ostacolata dal potere d'una Chiesa che travalicava i limiti stessi impostile dalla fede cristiana (ipotesi storiografica non del tutto peregrina, a dire il vero). Gli ideologi del Risorgimento e quelli del Regno furono così costretti a cercare di costruire l'italianità attraverso l'unione dell'epopea di liberazione risorgimentale (adeguatamente purgata dagli elementi poco edificanti - ma questo accade sovente in circostanze simili) col progressismo scientista ottocentesco e con la storia di un'oppressione secolare (vera o presunta che fosse, a seconda del periodo storico) in cui lo "straniero" di turno e la Chiesa cattolica avida e traditrice erano andati a braccetto. I risultati furono, manco a dirlo, deludenti. Gli italiani non furono fatti.

Giorgio De Chirico, Piazza d'Italia, 1913,
Art Gallery of Ontario, Toronto, Canada.
Il secondo tentativo, in ordine di tempo, di fare gli italiani fu quello del fascismo. L'Italia era uscita vincitrice dalla Prima guerra mondiale, ma economicamente prostrata e socialmente in subbuglio. La sconvolgimento della Rivoluzione d'Ottobre era giunto anche da noi, e minacciava di rovesciare lo Stato liberale. Mussolini riuscì a prendere il potere con un insieme spregiudicato di sagacia politica e violenza. Quando si ritrovò a capo dell'Italia, tentò anch'egli di creare una "mitologia" della nazione italiana, rifacendosi alla Roma imperiale. Ora, come a tutti dovrebbe esser chiaro, gli antichi romani poco avevano a che fare cogli italiani medievali e moderni. Roma fu tutt'altra cosa: la lingua, la religione, i costumi, la mentalità, tutto la separa dalla civiltà - dalle civiltà che si sarebbero susseguite, dopo la sua caduta, sul territorio della Penisola italiana. E se anche queste differenze non ci fossero state o fossero state secondarie, la situazione concreta dello Stato italiano negli anni Venti del Novecento non aveva nulla a che fare con quella dello Stato romano cui Mussolini si richiamava. Cos'era l'Italia del 1925? Un paese agricolo con qualche centro industriale, una nazione d'analfabeti povera e senza risorse, che pretendeva d'esser trattata da pari da colossi politici ed economici come l'Impero britannico, gli Stati Uniti, l'Unione Sovietica e la Germania (la quale, benché prostrata dalla guerra, aveva un potenziale economico e umano incomparabile a quello italiano, come il riarmo nazista avrebbe di lì a poco dimostrato). Ecco quale Italia il fascismo paragonava all'Urbe, una delle compagini statuali più potenti e ammirate della storia. Il fascismo non si limitò a richiamarsi alla gloria di Roma, ma, oltre a rifarsi a una "mistica della Nazione", s'alleò, a differenza dello Stato liberale, con la Chiesa cattolica: "Dio, Patria e Famiglia" fu uno dei suoi motti più celebri. Ma anche in questo caso gli italiani non furono fatti.

Vent'anni sono un lungo periodo nella vita d'un uomo, ma poca cosa in quella di una nazione. Il fascismo fu spazzato via da quella Seconda guerra mondiale in cui aveva trascinato l'Italia con miope spavalderia. Non resse l'urto di un conflitto combattuto tra nazioni che l'Italia dell'epoca poteva soltanto scimmiottare. Nel dopoguerra, tuttavia, la fine del regime fu raccontata in ben altra maniera. Il fascismo - si diceva - fu rovesciato da un popolo che si ribellava a un ventennio di dispotismo, l'Italia diventò gioiosamente una Repubblica cacciando i monarchi vili e collusi col regime, una nuova costituzione proclamò il suffragio universale e i diritti dell'uomo, e i "liberatori" la arruolarono nel campo delle democrazie occidentali nella lotta mortale contro l'oscurantismo della tirannia comunista - oppure, gli altri liberatori (la salvezza e la perdizione arrivano sempre dagli stranieri, in Italia) attendevano che s'unisse al benefattore dei popoli (Stalin) nella lotta contro l'oppressione capitalista. Ecco, succintamente, il "racconto fondatore" della "nuova" nazione.
A seguito del proclama dell'8 settembre del 1943, a guerra ormai persa, i tedeschi avevano occupato la Penisola, diventata il terzo fronte per la Germania nazista. L'Italia, teatro dei combattimenti tra gli angloamericani e i tedeschi, si spaccò, dando vita a quella che, lungi dall'essere una guerra di liberazione dal fascismo, fu una guerra civile. Finita la guerra, giustiziato Mussolini e cacciato il re, la nuova Italia repubblicana si costruì, ideologicamente, con la negazione sistematica dell'Italia fascista e della sua eredità, negazione che giunse al ridicolo di mettersi tra i vincitori della guerra, tanto che non pochi furono tiepidi di fronte al miracolo che Alcide De Gasperi aveva compiuto durante la conferenza che portò alla frima dei trattati di Parigi del 1947. La Repubblica, insomma, nacque con una "rimozione". Una "nuova Italia", repubblicana e moderna doveva nascere dalla grande lotta partigiana di liberazione. E nacque davvero, questa volta, sebbene in maniera differente da quello che ci si sarebbe potuti aspettare.
Lascia o raddoppia?, puntata del 28 marzo 1956.
L'evento che cambiò profondamente il nostro paese fu il Miracolo economico, la prima, vera industrializzazione dell'Italia, il passaggio da una società agricola e rurale a una industriale e urbana. L'Italia del Miracolo economico non aveva però un passato a cui ispirarsi. L'Italietta del Risorgimento era un ricordo lontano, mentre il ridicolo trionfalismo fascista un'onta di cui vantarsi per essersene liberati. La Nuova Italia industriale non poté neppure guardare alle tradizioni popolari locali. Quelle non erano nazionali, ed erano segno di uno stato d'ignoranza e di superstizione da cui ci si stava affrancando e di cui, vergognosi, dimenticarsi. Il cattolicesimo non fu avversato come durante il Risorgimento. Partecipò, anzi, alla ricostruzione dell'Italia, di cui la sua espressione politica, la Democrazia cristiana, tenne le redini per lungo tempo. Ma la nuova Italia industriale e consumista avrebbe fatto spontaneamente quello che i risorgimentali agognavano: svincolare pian piano la vita quotidiana dal "giogo" della Chiesa cattolica, fino a giungere all'Italia secolarizzata e areligiosa odierna. Non avendo un passato a cui ispirarsi (la presunta guerra di liberazione dal fascismo era forse sufficiente a far propaganda, parate e cerimonie, ma non a costituire la tradizione culturale, politica, sociale e giuridica di una nazione), l'Italia diventò una colonia culturale (in materia di politica estera lo era fin dalla fine della guerra) dei trionfatori dei tumulti del Novecento: gli Stati Uniti d'America. Se nei primi decenni la cosiddetta "egemonia culturale" delle sinistre tenne in qualche modo a freno la smodata ammirazione da conquistati che aveva ghermito gli animi degli italiani all'indomani della Seconda guerra mondiale, cogli anni Ottanta e ancor più dopo il 1989 questa esplose, fino all'appiattimento odierno sul modello americano, ormai rimasto l'unico non solo per gli italiani, ma per tutto il pianeta.

"Re, primi ministri, arcivescovi, perfino degli avvocati sono stati alla sbarra". Secoli di storia inglese sono riassunti in questa frase. Secoli storia che sono secoli di passato, perché per un inglese la Gloriosa rivoluzione del 1688, la Guerra dei Sette anni, la Rivoluzione industriale, Waterloo, l'esplorazione ottocentesca delle più remote regioni del mondo, la Prima e la Seconda guerra mondiale sono un fluire continuo, una storia senza soluzione di continuità, un passato. L'italiano che si guardi alle spalle, invece, che cosa vede? Vede una storia a tratti magnifica, tra le più splendide dei paesi europei. Una storia che ha lasciato tracce mirabili in tutta la Penisola, ma tracce che gli sono tanto estranee quanto gli scavi archeologici di Pompei o le gradinate del Colosseo. La Napoli degli angioini, il Rinascimento fiorentino, il Barocco romano, i mille anni della Serenissima Repubblica di Venezia sono storie locali che non fanno parte dell'immaginario nazionale e che, oggi, non lo fanno nemmeno più di quello locale. Le nostre istituzioni sono il frutto di strani miscugli, un insieme di prestiti e scopiazzature un tempo dai francesi, oggi dagli anglosassoni, e da sopravvivenze da epoche ripudiate come il fascismo (si pensi all'assurda situazione della giurisprudenza penale, sospesa tra il codice penale d'impianto fascista e quello di procedura d'impianto anglosassone). Non sembra che nulla sia spontaneamente germogliato dal nostro suolo. O, meglio, quello che c'era di spontaneo, è morto da tempo. Le difficoltà della nostra lingua a stare al passo coi tempi, con la sovrabbondanza degli anglicismi che va ben al di là del disarmante provincialismo esterofilo, ne sono una testimonianza fin troppo palese. Siamo nella paradossale situazione di avere una Patria senza una tradizione nazionale, illusi d'appartenere a una nazione che, in realtà, non è mai nata, perché frutto di scelte dettate da visioni del mondo astratte e ideologiche, con la complicazione di un duplice cambio di regime politico, di cui l'ultimo è stato la negazione dei due precedenti. Che cosa ci rimane? La società massificata e consumista nata col Miracolo economico, una cultura mediatica nazional-popolare e un'ammirazione acritica per un paese che non capiamo e che non riusciremo mai a capire. Poco, molto poco, per affrontare l'inquietante nuovo mondo che si sta profilando all'orizzonte.

[La citazione di Manzoni è tratta C. Salinari C. Ricci, Storia della letteratura italiana, vol. 3, tomo 1°, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 2292; La cartina d'Italia e il fotogramma di Lascia o Raddoppia?, dalla versione italiana di Wikipedia; la foto del dipinto di De Chirico da Pinterest]

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