In avanti a ritroso

In una celebre conferenza tenuta all'Athénée Royal nel 1819, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Benjamin Constant scrive:
Noi non possiamo più godere della libertà degli antichi, che era fatta della partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La libertà che ci è propria deve esser fatta dal godimento pacifico dell’indipendenza privata. La parte che, nell'antichità, ciascuno prendeva alla sovranità nazionale, non era affatto, come ai giorni nostri, un’astratta supposizione. La volontà di ciascuno aveva una reale influenza: l’esercizio di tale volontà era un piacere vivo e ripetuto. Di conseguenza, gli antichi erano disposti a fare molti sacrifici per conservare i loro diritti politici e la parte che avevano nell'amministrazione dello Stato. Ciascuno, sentendo con orgoglio il valore del suo suffragio, trovava in tale coscienza della propria personale importanza ampio risarcimento.Quel risarcimento per noi oggi non esiste più. Perso nella moltitudine, l’individuo non avverte quasi mai l’influenza che esercita. Mai la sua volontà s’imprime sull’insieme; niente prova ai suoi occhi la sua cooperazione. L’esercizio dei diritti politici ci offre dunque soltanto una parte dei godimenti che trovavano in esso gli antichi e, allo stesso tempo, i progressi della civiltà, la tendenza commerciale dell’epoca, la comunicazione dei popoli fra loro hanno moltiplicato e variato all’infinito i mezzi della felicità dei singoli. Ne segue che noi dobbiamo essere ben più attaccati degli antichi alla nostra indipendenza individuale; difatti gli antichi, quando sacrificavano tale indipendenza ai diritti politici, sacrificavano il meno per ottenere il più; mentre noi, a fare il medesimo, daremmo il più per ottenere il meno. Il fine degli antichi era la suddivisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era questo ciò che chiamavano libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza nei godimenti privati; e chiamano libertà le garanzie loro accordate dalle istituzioni a questi godimenti.
Quentin Massys, Il cambiavalute e sua moglie, 1514,
Musée du Louvre, Parigi.
La forma di stato che dovrebbe garantire la “libertà” e la “felicità” dei moderni, è quella che storicamente è chiamata democrazia liberale. Quella che oggi, a distanza di oltre vent'anni dalla caduta del Muro di Berlino e del collasso dell’URSS, chiamiamo ormai democrazia senza aggettivi. Dunque le democrazie moderne, essendo indirette, mediate, necessitano che il cittadino s'affidi a qualcuno (i partiti) per le scelte che un tempo, nelle democrazie dirette ateniese e romana, erano condivise dagli aventi diritto al voto per la diversa dimensione e struttura socio-economica. Nelle società contemporanee (che forse avrebbero stupito i cittadini delle antiche democrazie, per l'onnipervasività quasi servile dell’attività lavorativa nella vita dei cittadini contemporanei), ancor più grandi e complesse di quella in cui visse, ormai due secoli fa, Benjamin Constant, pochissimi rappresentanti possono render conto ai propri elettori. Questo vuoto è colmato da un altro corpo intermedio, che si sobbarca l'onere di rendere edotti i cittadini sul quel che accade nel paese: la stampa (con tutti i problemi anche epistemologici che la presenza di un altro intermediario comporta). La sua funzione non è nobilissima, come piace pensare ai giornalisti, ma strutturale. Senza di essa non è possibile la democrazia dei moderni, perché il cittadino non ha né modo né tempo per farsi da solo un'opinione su quanto accade e sull'operato dei suoi rappresentanti. La stampa dovrebbe svolgere un servizio pubblico tanto essenziale quanto quello del parlamento. Tuttavia questo sistema porta con sé fin dal principio il germe della sua dissoluzione, perché uno degli elementi fondamentali che lo fa funzionare (che lo fa, cioè, essere “democratico”, ovvero che dovrebbe far sì che chi esercita il potere renda pubblicamente conto del suo operato) è direttamente soggetto a dinamiche che dovrebbero essergli estranee (e non per motivi “morali”, ma per ragioni tecniche di funzionamento): quelle del mercato. In più, oggigiorno, alla sempre presente dipendenza dal mercato (i giornali hanno da che mondo è mondo avuto da vendere per continuare a uscire), s’è affiancata un’altra insidia, sorta dopo il 1989. La stampa è, certo, per essenza di parte (come tutta la società moderna di cui dovrebbe essere lo specchio). Ma un conto è l’esserlo con trasparenza, un conto, invece, è esserlo celatamente. Può sembrare una distinzione capziosa, una sofisticheria, me ne rendo conto. Consideriamo, tuttavia, quanto segue. Parteggiare apertamente lo si fa quando la linea è palese, magari proprio quando si è o quotidiani di partito o di una parte sociale o di un’ideologia (mi viene in mente il Manifesto, col suo sottotitolo “Quotidiano comunista”). Allora il lettore può, in un certo qual modo, abbassare le difese, abbandonarsi a una lettura che sa essere orientata. Ma quando il parteggiare è nascosto, quando la linea non è palesata, ma è dettata dagli interessi dell’editore (economici e/o politici), o, peggio, da un conformismo acritico, dalla supina accettazione della visione del mondo della cultura mondiale dominante (conformismo che serve anch'esso agli scopi degli editori, il cui principale resta quello delle vendite), allora tutt'al più ci s’imbatte in generiche dichiarazioni di principio sull'amore e la lotta per la “libertà”, la “democrazia”, i “diritti”, la “civiltà” (la “civilizzazione”, anzi, che non è proprio la stessa cosa). È in questo caso che bisogna stare in guardia, ed è proprio in questo caso che oggi ci troviamo. C’è una concordanza di valori di fondo nella stampa occidentale, appena mascherata da schermaglie pragmatiche. Concordanza i cui effetti perniciosi sono sotto gli occhi di tutti coloro che esercitano ancora il pensiero sulle vicissitudini degli uomini. Pensiero che non è quello delle cosiddette “scienze umane”, tutte tipi e modelli prefabbricati con cui incasellare il fluire degli eventi secondo categorie che sono, al fondo, morali, proprie di quell'ideologia positivistico-liberale che ha trionfato nella lotta per la forma del moderno combattuta per lo più a parole durante l’Ottocento, e a cannonate per buona parte del Novecento.
L’impossibilità che il singolo ha di farsi un’idea vagamente veritiera di quello che accade nel mondo comporta una cesura e un isolamento, che possono apparire a prima vista paradossali, vista la continua e strombazzata “connessione al mondo” realizzata soprattutto da internet e dai social network. A prima vista, perché la tanto decantata rete altro non è che una sovrastruttura che, nella migliore delle ipotesi, distoglie lo sguardo, e, nella peggiore, lo controlla e lo indirizza. Uno stato di cose che taluni potrebbero tacciare di dispotismo. Se dispotismo è, tuttavia, è il capolavoro del dispotismo. Non ha le sinistre forme della distopia orwelliana, né quelle storiche del nazismo o del comunismo cui essa s’ispirava. Ma la forma galvanizzante del custode della libertà. Quale miglior modo di controllare le persone del far loro credere che ogni atto che compiono è frutto della loro libera decisione? E liberi lo sono: sono liberi di seguire quei condizionamenti che più si confanno alla loro storia individuale, che più si confanno alle loro bizzarrie, alle loro ubbie, ai loro capricci. Condizionamenti che si ripropongono senza sosta, costringendo come per malia tutti a occuparsi di quello che i mezzi di comunicazione propinano al momento. Così tutti restano all'interno di recinti strettissimi, dentro i quali s’agitano seguendo quei solchi che più s’adattano alla loro complessione “spirituale”. Se è possibile usare questo nobilissimo aggettivo nel tempo forse più remoto da qualsivoglia forma di spiritualità – che, anzi, l’aborrisce, perché la spiritualità richiede una sorta di sacrificio del singolo, per il riconoscimento che l’individuo non è l’istanza ultima, ai cui tutto, a cominciare dallo Stato, ha da piegarsi, ma un alcunché di cui riconoscere la parzialità e l’accidentalità, perlomeno di quello che – desideri, inclinazioni, emozioni – oggi è ritenuta essere la parte più importante.
Giorgio De Chirico, La nostalgia dell'Infinito, 1913, MOMA, New York.
Ormai, per l’uomo che pensa, riflettere sul mondo in cui vive non ha la funzione “rivoluzionaria” o “riformatrice” vantata dalla Rivoluzione francese in poi. L’uomo contemporaneo che pensa lo fa anzitutto per non sprofondare nell'obbrobrio in cui sono immersi coloro che lo circondano. Rendersi conto di lacci e laccioli che a ogni angolo sono pronti ad avvincerlo; e avvertire l’insidiosità di certe affermazioni, che celano proprio l’opposto di quello che dichiarano, anche in buona fede: è questo il primo compito del pensiero. Il secondo è quello d’aver coscienza di quell'isolamento a cui sopra accennavo: tutto è così illusoriamente vero e concretamente falso, che, alla fine, è inutile dannarsi nel tentare di sbrogliare la matassa. Bisogna passare oltre. Ed è a questo punto che potrebbe accadere il più imprevisto dei rovesciamenti. Isolato e spaesato, l’uomo che pensa potrebbe trovarsi nella più favorevole delle condizioni per il pensiero. Potrebbe finalmente giungere alla consapevolezza dell’ultima illusorietà di tutto quello che ha agitato le menti e gli animi dei migliori spiriti occidentali dalla Rivoluzione francese in poi. Potrebbe rimboccare quella strada che il pensiero europeo ufficiale e prestigioso ha da lungo tempo abbandonato, sedotto dalla potenza scatenata dalla scienza e dalla tecnica. Potenza che ha lasciato credere che non vi fossero altre vie, che non vi fossero altre visioni oltre a quella materialistica che sta alla base del positivismo trionfante. Mentre adesso altre strade, arcaiche eppure gravide d’avvenire, gli si parano d’improvviso di fronte.

[Il passo di Constant è tratto da Benjamin Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Einaudi, Torino 2001, pp. 15-16. Le immagini sono tratte dalla Web Gallery of Art (Massys) e dal Mark Arden's Artchive (De Chirico)]

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