Jünger: Nelle tempeste d’acciaio

Ernst Jünger partecipò come volontario alla Prima guerra mondiale. Servì nell'esercito per quasi tutta la durata del conflitto, durante il quale prese parte a numerose battaglie e azioni che gli lasciarono diverse cicatrici (fu ferito quattordici volte) e gli valsero medaglie per il coraggio e il valore mostrati. Della sua esperienza bellica scrisse un libro, Nelle tempeste d’acciaio, che incontrò grande favore nella Germania tra le due guerre mondiali. Oggi l’opera ha una duplice fama. Da una parte è biasimata per il suo distacco, la sua freddezza, il suo tacere riguardo all’orribile vita dei soldati nelle trincee, all’assurdità degli scopi e al crudele modo in cui furono perseguiti. Dall’altra, è celebrata per la sua narrazione scarna, essenziale e incalzante degli eventi bellici di cui l’autore fu testimone e protagonista. C’è che la ritiene l’unica opera epica della letteratura europea del secolo scorso, l’Iliade del Novecento, addirittura (il nostro tempo ha un marcato gusto per le iperboli).

Ernst Jünger in divisa militare all'inizio degli anni venti.
Al primo impatto, sembra una mera cronaca, un gelido resoconto, quasi un rapporto stilato a un superiore. Jünger racconta passo passo tutta la sua esperienza al fronte. La sua penna non trasmette però nessun sentimento. Quelli che sorgono sono stimolati non dallo stile, né dalla lingua, ma dal solo lavorio dell’immaginazione del lettore che ricostruisce gli ambienti e gli eventi descritti.
Riflettendoci su, ci s'accorge che più che una cronaca è una fredda descrizione del fenomeno guerra, dove l'interiorità del soldato non è ritenuta importante ai fini della rappresentazione. Il soldato è visto nel suo muoversi, nell’espletare le sue mansioni, non nel suo sentire. L’interiorità è completamente tralasciata (nel leggerlo, talvolta mi veniva in mente il comportamentismo, dove per l’appunto ci si rifiuta di prendere in considerazione la vita interiore del soggetto, ritenuta irrilevante dal punto di vista scientifico), anche quando le circostanze lo avrebbero quasi richiesto. Come nell’incontro col fratello ferito. Viene descritta qualche lacrima, e l’ansia di sincerarsi delle sue condizioni. Ma tutto sempre senza che vi si legga una vera commozione, che immagino vi fu, ma che volutamente non traspare dalla prosa. Oppure come nella mancata descrizione dei periodi di licenza trascorsi a casa, in Germania. Jünger si limita a dire che li ha avuti, perché la natura rigorosamente cronologica della narrazione glielo impone, senza tuttavia aggiungere altro.

Jünger, che coltivò per tutta la vita la passione per l’entomologia, Nelle tempeste d’acciaio descrive la guerra come altri descriverebbe un alveare (con la non irrilevante differenza che in questo caso è un’ape a tenere in mano la penna). E proprio la freddezza e il distacco della narrazione lasciano una chiara impressione riguardo all’autore. Non del tedesco d’inizio Novecento, però, tutto preso dalla retorica della guerra come purificazione e della Patria da servire ciecamente e per la quale, se necessario, sacrificare la vita (ma tale retorica era diffusa in tutto il continente: basti pensare al movimento futurista italiano, che fece dell’esaltazione della guerra uno dei suoi cardini teorici e pratici). Piuttosto viene in mente un tecnico che esegua una mansione ordinaria, comune, senza alcuna rilevanza morale. Come quegli, Jünger esegue senza fiatare, senza mettere in discussione neppure nell’interiorità della sua coscienza ciò che gli è stato ordinato. Un episodio credo basti a illustrare quanto detto. Jünger si trova in trincea, quando scorge un soldato inglese che imprudentemente cammina tenendo la testa al di sopra delle protezioni. Non ha dubbi sul da farsi: strappa di mano il fucile a un soldato vicino, prende la mira e abbatte il nemico con un colpo preciso. In fondo, avrebbe potuto lasciarlo vivere. Quale vantaggio avrebbe comportato per l’esercito del Kaiser l'uccisione di un solo nemico in un momento di stallo? Ma non è un atto pregno d’odio o di rivalsa. Jünger compie quel dovere, espleta quella mansione che è richiesta a lui, ufficiale dell'esercito tedesco. E non c'è odio nelle sue parole, e neppure animosità. Registra semplicemente un fatto che gli è sembrato notevole, un episodio utile a descrivere le dinamiche della vita di trincea.
In alcuni passi sembra tuttavia trapelare un barlume d'emotività. Quando narra, ad esempio, d’aver risparmiato la vita a un ufficiale inglese durante l’offensiva di primavera del 1918 (il che, afferma, gli ha evitato molti rimpianti negli anni a venire). Oppure quando racconta dell’uccisione d'un altro soldato nemico:
Il mio inglese era disteso lì davanti: un ragazzo. La pallottola gli aveva attraversato il cranio da parte a parte. Giaceva là, coi tratti del viso distesi. Mi sforzai di guardarlo negli occhi. Ora non si poneva più la questione: tu o io. Sono tornato spesso col pensiero a quel morto, e sempre più frequentemente di anno in anno. Lo stato che ci solleva dalla responsabilità, non ci può liberare dalla tristezza; la dobbiamo sopportare fino in fondo, sin nella profondità dei nostri sogni.
Dal brano – evidentemente un’aggiunta successiva al testo primitivo – trapelano quelle conseguenze emotive che sono rigorosamente celate in tutta l’opera. Ma di quali conseguenze si tratta? La risposta si trova nell’ultimo periodo (invero alquanto banale). Il sentimento che Jünger ha provato al ricordo del giovane nemico ucciso è la tristezza. Una tristezza da accettare con virile rassegnazione, come ogni altra mesta necessità della vita. Ma egli non ha alcuna responsabilità per quell’uccisione. E’ lo stato ad averlo sollevato. Ora, qui si pone un problema interpretativo che non posso risolvere, poiché non posseggo l’originale tedesco: quello “stato” è Zustand (Stand), oppure Staat? Jünger si sente cioè sollevato moralmente e legalmente dallo stato di cose, dalla situazione in cui si trovava (il mors tua, vita mea a cui accenna poco sopra); oppure dallo Stato, dall’eseguire un compito impostogli da quell’organismo sovraindividuale a cui spetta la decisione ultima riguardo alla liceità sia legale che morale d’un’azione? La prima interpretazione sembra più coerente con il passo. La seconda, con lo spirito dell’intera opera. E con, aggiungerei, buona parte della cultura tedesca dell’epoca, che abbracciava il relativismo storico in campo morale e il positivismo in campo giuridico.
Così si comprende perché l’approccio delle Tempeste d’acciaio è amorale nel senso etimologico del termine: il suo agire non è sottoposto a considerazioni morali. Non sono conoscitivamente rilevanti, ma, forse, neppure esistenzialmente. Jünger abbatte il soldato inglese come se stesse costruendo un ponte o aggiustando un motore. Una totale immanenza al compito, senza domandarsi nulla, senza che il minimo dubbio sull’ultima liceità dell’atto, indipendentemente dalla sanzione ricevuta dallo Stato, traspaia dalle sue pagine. Il dubbio d’Antigone sembra non sfiorarlo mai.


[Ernst Jünger, Nelle tempeste d'acciaio, Guanda, Parma 2007; l'immagine è tratta dall'articolo Ernst Jünger dell'edizione tedesca di Wikipedia]

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