Una ricerca che ha da finire. Guénon e il posto originario della filosofia

L’articolo Conosci te stesso, originariamente pubblicato in arabo nel 1931 e poi tradotto in francese dallo stesso Guénon, potrebbe anche portare il sottotitolo “Origini e significato del termine filosofia”. A differenza di altre sue opere, Guénon qui non ha solo parole di biasimo per uno dei vanti dell’Occidente, ma inserisce la filosofia delle origini in seno alla cultura greca dei misteri e del culto di Apollo, partendo appunto dalla celebre massima delfica “conosci te stesso”. Guénon parte da un fatto: la divergenza di opinioni, tra gli studiosi, intorno all’origine della massima delfica. Attribuita di volta in volta a Pitagora, Socrate e Platone, la massima incisa sulla porta del tempio di Delfi denuncia proprio per questo un’origine ben più remota, non ricollegabile a taluna o talaltra individualità. Socrate, com’è noto, ne fece il suo motto, e pare che anche Pitagora lo avesse usato. “Con ciò” scrive Guénon “quei filosofi si proponevano di mostrare che il loro insegnamento non era strettamente personale, che proveniva da una fonte più antica, da un punto di vista più elevato collegato alla sorgente stessa dell’ispirazione originaria, spontanea e divina.” (Conosci te stesso, pp. 72-73) Questo passo credo che sia difficilmente contestabile. Lasciando da parte la figura di Pitagora, la cui esistenza e consistenza per la cultura accademica ufficiale è ancora oggi oggetto di contesa, basti pensare a quel che si legge di Socrate nei dialoghi di Platone. Socrate dice di sentire dentro di sé un demone che lo consiglia nei momenti decisivi della sua vita: 

C’è dentro di me un non so che spirito divino e demoniaco [to daimònion]; quello appunto di cui Melèto, scherzandoci sopra, scrisse nell’atto di accusa. Ed è come una voce che io ho in me fin da fanciullo; la quale ogni volta mi si fa sentire, sempre mi dissuade da cosa che io sia per fare, e non mai mi persuade ad alcuna (Apologia di Socrate, 31c-d, trad. it. p. 39).

Le divergenze interpretative di questo passo fra gli studiosi sono ovviamente notevoli, andando dal riconoscimento della natura religiosa di questo demone alla semplice traduzione in immagini della religiosità popolare del razionalismo morale di Socrate. A me pare che Socrate si richiami a una fonte divina, sovraindividuale, come guida dell’esistenza. Si può quindi parlare di religiosità socratica, stando però attenti a non intendere la religione alla maniera caricaturale in cui viene considerata dai moderni, ridotta cioè al tertullianeo credo quia absurdum e a un trionfo della cieca emotività contro la ragione portatrice di luce. Tornando alla figura di Socrate, nel Simposio si legge che giunge tardi al banchetto perché per strada si era d’improvviso fermato, immerso in profonda meditazione:

Agatone, l’anfitrione del banchetto, sorpreso che Aristodemo non recasse con lui Socrate, manda un servo a cercarlo il quale, di ritorno, riferisce che “Socrate è laggiù: si è appartato nell’atrio dei vicini e se ne sta lì immobile. Io l’ho chiamato, ma lui non è voluto entrare.” Quando Agatone esorta il servo a insistere, Aristodemo ribatte: “No, lasciatelo stare (…) ha questa abitudine: di tanto in tanto si apparta in qualche angolo e se ne resta immobile. Verrà presto, almeno credo. Lasciatelo stare, non lo disturbate!” (Simposio, 175a-b, trad. it. p. 99)

In qualunque modo si vogliano interpretare questi e altri passi, la rivendicazione socratica della natura non personale, non individualistica del suo insegnamento è da tutti ammessa, e la forma stessa delle sue posizioni filosofiche è non soggettiva, mirante al raggiungimento della Verità in opposizione all’individualismo e al relativismo estremo dei sofisti che imperavano allora ad Atene. 

Le rovine del Tempio di Apollo a Delfi
Anche su Platone Guénon fa due osservazioni interessanti. Anzitutto, è difficile distinguere nei suoi dialoghi quale sia l’apporto del maestro e quale quello del discepolo. In secondo luogo - e questo è incontestabile - molte delle dottrine platoniche hanno una chiara e dichiarata origine pitagorica. Le individualità di questi tre filosofi, per quanto ancora discernibili, finiscono insomma per avere dei confini meno netti, sfumati, suggerendo un’origine comune delle loro dottrine, che per Guénon altro non è che quella divina della Tradizione primordiale. Con ciò “possiamo constatare che quei filosofi erano molto diversi dai filosofi moderni, che fanno ogni sforzo per esprimere qualcosa di nuovo al fine di presentarlo come espressione del loro pensiero personale e porsi come unici artefici delle loro opinioni, quasi che la verità potesse essere proprietà di un uomo” (Conosci te stesso, p. 73). Ecco, questa è la filosofia oggetto degli strali di Guénon da un capo all’altro della sua opera, il pensiero individuale che si erge a verità, le congetture di singole personalità che vorrebbero gabellare come universale il loro punto di vista parziale, la loro accidentalità. È il trionfo dell’individualismo, che in Guénon è un termine tecnico dal significato ben preciso: “la negazione di ogni principio superiore all’individualità e quindi la riduzione della civiltà, in ogni suo dominio, ai suoi elementi puramente umani.” (La crisi del mondo moderno, p. 103) Ora, la prima vittima, per così dire, dell'individualismo, è l’intuizione intellettuale, e se ne comprende facilmente il motivo. Si tratta di una facoltà sovraindividuale che attinge a conoscenze di un ordine aborrito dai moderni: la metafisica. Intendiamoci bene con le parole: con metafisica qui s’intende “la conoscenza dell’universale, o se si vuole, dei principi di ordine universale” (Introduzione generale allo studio delle dottrine Indù, p. 79). E Guénon precisa che non si tratta propriamente di una definizione, ma di un’indicazione dell’ambito che pertiene a questa forma di conoscenza. Il motivo è presto detto: essendo il campo della metafisica quello al di là della fisica, come indica il significato letterale del termine, ci troviamo al di là di qualunque esperienza possibile, ogni esperienza essendo, per definizione, limitata all’ambito della natura (la physis, donde il termine fisica, che Guénon intende in senso ampio come l’insieme delle conoscenze che riguardano la natura). Chi dice esperienza dice frammentarietà, dice individualità, dice tempo. La metafisica è quindi la conoscenza dell’intero (dell’uno, del non-duale), dell’universale e dell’eterno; e la via di accesso a essa è l’intuizione intellettuale, proprio perché si tratta di una facoltà sovraindividuale, quindi non soggetta alla temporalità e a tutte le altre condizioni limitanti che caratterizzano le facoltà propriamente umane. Negando la possibilità dell’intuizione intellettuale, di quella conoscenza da cui tutta una civiltà dipende in una società normale, l’Occidente ha limitato 

La conoscenza al piano più inferiore, lo studio empirico e analitico di fatti non più ricondotti ad alcun principio, la dispersione in una moltitudine indefinita di dettagli insignificanti, l’accumulamento di ipotesi infondate distruggentesi incessantemente a vicenda, e vedute frammentarie che a nulla possono condurre, salvo che a quelle applicazioni pratiche, che costituiscono la solo effettiva superiorità della civiltà moderna: superiorità, invero, poco invidiabile e che nello svilupparsi fino a soffocarne ogni altra preoccupazione ha conferito a tale civiltà quel carattere puramente materiale, che fa di essa una vera mostruosità (La crisi del mondo moderno, p. 60).

Se qui la filosofia fa da ancella delle scienze naturali, riducendosi a trattare questioni epistemologiche e di metodo, esiste anche un’altra concezione di filosofia, parente di quella e molto in voga oggi, il cui unico scopo è quello di fare domande, di porre problemi, senza avere alcuna pretesa di risolverli. È il pathos dell’incompiutezza, il malcelato compiacimento della limitatezza dell’uomo, della sua fallibilità, accoppiata al rifiuto di qualunque pretesa di verità, considerata come una totalitaria imposizione che mutila la libertà e la creatività dell’individuo. Guénon molto appropriatamente parla di “bisogno disordinato della ricerca per la ricerca, cioè dell’agitazione più vana, nell’ordine mentale non meno che nell’ordine corporeo.” (La crisi del mondo moderno, p. 104) Al riguardo mi viene in mente una celebre immagine di Stendhal, che riteneva l’ascesa verso la cima della montagna come la sola parte esistenzialmente significativa, mentre la conquista della vetta come di una parentesi da chiudersi alla svelta, fonte di noia e perniciosa inattività. Ecco, questa immagine dello scrittore romantico francese riassume il modo in cui è, alla fine, presentata oggi la filosofia. Un’attività, una ricerca senza fine, non solo perché non si crede possibile raggiungere la verità, ma perché il viaggio è tutto quello che interessa agli occidentali odierni, un vagare continuo e indefinito, che, come dice Guénon, altro non è che un vano e incessante agitarsi. 

Caspar David Friedrih, Il Watzmann, 1824-25, Alte Nationalgalerie, Berlino.

Com’era stata intesa all’origine, però, la filosofia non ha, secondo Guénon, in sé nulla di biasimevole. L’etimo del termine philosophia è noto a tutti, e, su questo punto, non ci sono divergenze sostanziali. Che cosa invece si debba intendere con sophia è dibattuto. Si veda, per esempio, quanto scrive Pierre Hadot al riguardo nel suo Che cos'è la filosofia antica? In queste pagine l’autore, pur riconoscendo la polisemia del termine, afferma che la sophia fosse “in realtà un saper fare, e il vero saper fare è il saper fare il bene.” (Che cos'è la filosofia antica?, p. 21) Questa ipotesi, su cui Hadot ha costruito questa e altre sue opere (anche meritorie, per il tentativo di sganciare l’attività filosofica dalla mera costruzione di ipotesi cui è ridotta tra i moderni, allo scopo di evidenziarne la portata esistenziale) è caratterizzato da un duplice peccato originale: il pregiudizio moderno della completa “naturalità” dell’uomo, e l’affidamento completo al metodo storico-filologico. Sull’idea che l’uomo sia solo natura non mi diffonderò, per non uscire dai limiti dell’articolo. Basterà accennare al fatto che il punto nodale non è l’antropologia filosofica, ma l’ontologia, ed è appunto l’idea che esista solo la natura intesa come l’insieme di ciò che può essere esperito attraverso i sensi che, in ultima analisi, fa dire a Hadot che la sophia è un mero saper fare. I limiti del metodo applicato sono evidenti: si costruiscono ipotesi sui pochi testi, spesso mutili, che sono giunti fino a noi, senza tenere in alcun conto la tradizione orale, alla quale, tra l’altro, appartenevano quei misteri tenuti in somma considerazione da tutti gli antichi. E chi applica questo metodo finisce per ricostruire il passato non come se la tradizione orale fosse perduta, ma come se non fosse mai esistita. Per questo motivo le ricostruzioni storiografiche hanno, per tempi e civiltà lontani dall’Occidente degli ultimi secoli, il carattere di letteratura, come d’altra parte una panoramica della storia della storiografia mostra palesemente. 

Guénon non ha dubbi sul significato originario di sophia: la Sophia è la Sapienza che è “identica alla vera conoscenza interiore” (Conosci te stesso, p. 74). Il philosophos, quindi, ama alla greca la sapienza, cioè ne è manchevole e la desidera. Per ottenerla, dovrà compiere un cammino, un itinerario spirituale in cui la pratica della filosofia è soltanto “una preparazione all’acquisizione della sapienza, e specialmente quegli studi che potevano aiutare il philosophos (…) a diventare sophos, sapiente” (Conosci te stesso, p. 73). La filosofia per gli antichi si riduce, quindi, a studi preparatori per conseguire una conoscenza di un altro ordine. E studi preparatori del livello più basso, destinati all’insegnamento pubblico, all’insegnamento essoterico. Ora la distinzione tra insegnamento esoterico ed essoterico per Guénon non è solo questione di pubblicità delle dottrine. Il carattere riservato di quelle esoteriche dipende essenzialmente dalla loro natura. Si tratta di conoscenze non adatte a tutti indistintamente, ma soltanto a coloro che hanno le qualificazioni adeguate ad assimilarle. Ciò implica che tutto ciò che era tenuto riservato, per quanto sia andato irrimediabilmente perduto, “fosse in relazione stretta e diretta con la sapienza e che non facesse appello soltanto alla ragione o alla logica, come avviene per la filosofia, che per questo è stata chiamata conoscenza razionale” (Conosci te stesso, p. 74). Anche per i primi filosofi la ragione era una facoltà limitata, con la quale non solo non si poteva attingere alla fonte della Sapienza, ma non era neppure sufficiente come conoscenza preparatoria. La Sapienza, riguardando l’intero essere, necessita di una forma di preparazione interiore per cui “si impiegavano ancora le parole, [ma] queste potevano soltanto essere prese come simboli destinati a fissare la contemplazione interiore” (Conosci te stesso, p. 75). Il cammino per la vera conoscenza spinge il cercatore verso l’interno. Tutto quello che viene dall’esterno può essere un ausilio, se finalizzato a risvegliarlo; oppure (ed è il caso delle conoscenze dei moderni) un ostacolo, se lo confina all’esteriorità, al dominio dei sensi e di quella ragione che dovrebbe “legislarlo”, o, comunque, limitarsi a descriverlo. Così la massima delfica conosci te stesso “significa anzitutto che nessun insegnamento essoterico è in grado di donare la conoscenza reale che l’uomo deve trovare solo in sé stesso, poiché in realtà qualsiasi conoscenza può essere acquisita tramite una comprensione personale (…) L’insegnamento che non risvegli in chi lo riceve una risonanza personale non può procurare alcun genere di conoscenza” (Conosci te stesso, p. 79). 

Siamo agli antipodi della concezione del sapere tipica del mondo moderno. Da secoli ormai la nostra civiltà va millantando la pubblicità e la democraticità del proprio sapere, aperto a tutti e da tutti controllabile, un sapere alla luce del sole, non riservato a poche conventicole o, peggio, monopolio di caste sacerdotali, il cui unico scopo è usarlo per mantenere il proprio potere e la propria influenza sui destini della società. Questo è quello che gli intellettuali “progressisti” vanno gabellando dal Settecento dei “lumi” in poi. Non mi diffonderò sull’ingenuità (o sull’ipocrisia?) di questa convinzione, ché sarebbe troppo facile osservare come non solo tutti non abbiano tempo e modo per controllare le conoscenze, ma che soprattutto difettino in capacità, motivazione e inclinazione. Così che bisogna credere all’autorità di chi quelle conoscenze possiede. Il che non ha nulla di biasimevole, ma comunque richiede un atto di fede contrario alla presunta, razionale - quindi pubblica e democratica, secondo il cieco credo dell’ideologia dominante - organizzazione del sapere nel mondo moderno, il cui scopo è ormai ridotto a sostenere gli avanzamenti tecnologici da tempo fini a sé stessi. Guénon, invece, esorta coloro che ne hanno capacità e inclinazione ad affrancarsi dalle catene che c’inchiodano alle ombre delle pareti della caverna, conscio non solo del numero esiguo di coloro in grado di farlo, ma anche di quelli disposti ad ascoltare la sua voce così inattuale, finanche odiosa per coloro che non credono esista altro oltre alla ragione calcolante e alle magnifiche sorti e progressive che le scienze naturali, suo strumento conoscitivo principe, ci dischiudono. Chiudo citando ancora le sue parole: 

La conoscenza reale non ha come tramite la ragione, ma lo spirito e l’essere tutto intero, perché essa non è altro che la realizzazione di quell’essere in tutti i suoi stati, il che equivale alla perfezione della conoscenza e all’ottenimento della sapienza suprema (Conosci te stesso, p. 82).


Opere citate o utilizzate per la stesura dell'articolo:

- René Guénon:

- Conosci te stesso, in Il Demiurgo e altri saggi, trad. it. Adelphi, Milano 2007, pp. 71-83. Ho apportato una correzione alla traduzione Adelphi. Ho tradotto sagesse con sapienza, invece che saggezza, come aveva scelto la traduttrice della versione Adelphi. Ora, in italiano saggezza si riferisce solo all’ambito morale. La traduzione corretta del termine nel senso in cui lo intende Guénon mi sembra appunto sapienza, poiché siamo qui nella sfera dello spirito. Mi conforta anche il fatto che Evola, autore che condivideva non poche posizioni teoretiche con Guénon, nella sua traduzione della Crisi del mondo moderno scelse di tradurre sagesse con sapienza. Si vedano altresì le definizioni di saggezza e sapienza nel vocabolario Treccani;

Introduzione generale allo studio delle dottrine Indù, trad. it. Adelphi, Milano 1989;

La crisi del mondo moderno, trad. it. di Julius Evola, Edizioni Mediterranee, Roma 2015;

- Pierre Hadot:

- Che cos’è la filosofia antica?, trad. it. Einaudi, Torino 1998;

- Platone:

Apologia di Socrate, trad. it. Laterza, Roma-Bari 2019;

-  Simposio, trad. it. Rizzoli, Milano 2001.

Crediti fotografici:

- La foto del Tempio di Delfi: By Adam L. Clevenger - Own work, CC BY-SA 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=830011

- La riproduzione del dipinto di Friedrich   https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Caspar_David_Friedrich_012.jpg

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