Alcune considerazioni sul significato esoterico della Crocifissione

- Che significato ha la crocifissione?
- Il corpo è la Croce. Gesù, il figlio dell'uomo, è l'ego o l'idea "Io-sono-il-corpo". Quando il figlio dell'uomo viene crocifisso, l'ego muore e ciò che rimane è l'Essere Assoluto. È la resurrezione del Sé Glorioso, di Cristo, il figlio di Dio.
- Ma come si giustifica la crocifissione? Uccidere non è un delitto orrendo?
- Tutti si suicidano. La beata ed eterna condizione naturale è stata appiattita da questa esistenza ottusa. La vita presente si deve, infatti, all'uccisione dell'eterna Esistenza positiva. Non è un vero e proprio caso di suicidio? Perché dobbiamo, allora, preoccuparci del delitto?
Masaccio, La Trinità, 1425-27, Basilica di Santa Maria Novella, Firenze
È un brano tratto da L’insegnamento spirituale di Ramana Maharshi, un volume che contiene la trascrizione di dialoghi di Sri Ramana Maharshi, uno dei più venerati saggi della tradizione indù, con alcuni discepoli. Di primo acchito ci si potrebbe stupire che una domanda sul significato della crocifissione sia stata posta a un illuminato indù. Perché l’interrogante ha chiesto lumi a Sri Ramana Maharshi sulla Crocifissione? E che cosa c’entra la via del Advaita Vedanta, la via dell’unità suprema, della non-dualità, con la Passione di Gesù Cristo? Alla prima domanda si potrebbe rispondere riportando alcuni fatti: l’India è stata per quasi tutta la vita del saggio indù (che morì nel 1950) una colonia dell’Impero britannico e il discepolo era forse un occidentale (Sri Ramana riceveva visitatori da tutto il mondo, e molti dei suoi discepoli erano occidentali) che domandava a un illuminato il senso di un racconto che la sua mente non riusciva a penetrare. Per cercare una risposta alla seconda domanda, invece, bisogna porsi da un punto di vista differente, anzitutto abbandonando la postura scientista, cioè il naturalismo immanentista che è alla base di tutto il sapere occidentale ufficiale, il sapere accademico degli ultimi secoli. Questa postura postula che i fenomeni dello spirito non si riferiscono a stati ontologici superiori, ma sono riconducibili a dinamiche “naturali”, a dinamiche, cioè, che cadono all'interno del mondo sensibile, l’unico esistente per la mentalità moderna. Facendo però notare che le dottrine spirituali rispondono a bisogni e a domande che da sempre l’uomo si pone, la scienza risponde che tali questioni esulano dal suo ambito conoscitivo. Una risposta elusiva, generata dalla cattiva coscienza: in realtà la scienza, riducendo tutti i giudizi di senso e scopo, di valore e qualità, alla soggettività, li squalifica, li espelle dall'unico ambito cui riconosca un carattere oggettivo e universale, l’ambito della ragione che ritiene di sua esclusiva competenza. Così facendo, però, apre la porta al nichilismo, il quale, ai giorni nostri, si manifesta con la confusione riscontrabile a tutti i livelli: intellettuale, morale e sociale; con le innumerevoli (e, al fondo, tutte uguali tra di loro) manifestazioni d’individualismo narcisistico; con lo scherno e il disprezzo per qualsiasi dottrina che esorti a guardare oltre l’individualità transeunte, che la metta tra parentesi, in secondo piano rispetto a qualsiasi cosa la trascenda.
Abbandonato lo scientismo al suo destino di nichilismo rimosso, bisogna porsi da un punto di vista che presuppone l’esistenza di livelli ontologici altri rispetto al solo sensibile ammesso dalla scienza moderna, piani accessibili all'uomo attraverso un itinerario interiore che presuppone un cambiamento del soggetto stesso che lo intraprende, fino all'identificazione del soggetto con la verità stessa attraverso l’intuizione intellettuale. Come scrive Giuseppe Tucci nel diario della sua spedizione nel Tibet occidentale del 1933: “Religione non è conoscere ma esperienza, ascesa verso piani spirituali superiori e possesso duraturo di verità eterne, che nessuna teologia ci potrà disvelare, ma le cui porte solo una visione interiore ed immediata ci può aprire” (Dei, uomini e oracoli, p. 58). 
Questa interessante definizione necessita di alcune precisazioni terminologiche. Anzitutto, eviterei di categorizzare come religiose dottrine ed esperienze che meglio si qualificano con l’aggettivo spirituale. In Occidente tutto quello che non è scienza nel senso moderno del termine viene grossolanamente raccolto nella categoria del religioso, con il conseguente degradamento che ne risulta, perché ciò che caratterizza la religione per l’uomo moderno è il fideismo, il sentimentalismo, l’irrazionalità. Ma anche quando si consideri la religione per quello che è veramente, ci si accorgerà, come fa più volte notare René Guénon nelle sue opere, che è un fenomeno che non si riscontra in Oriente, fatta eccezione per l’Islam. Guénon, nella sua opera Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, individua nell'unione di tre elementi diversi tra loro ciò che determina una religione in senso proprio:
Un dogma, una morale e un culto; dovunque venga a mancare uno qualunque di questi tre elementi, non avremo più a che fare con una religione nel senso proprio della parola. Aggiungeremo subito che il primo elemento costituisce la parte intellettuale della religione, il secondo ne costituisce la parte sociale, e il terzo, che è l’elemento rituale, partecipa al tempo stesso dell’una e dell’altra (Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, p. 74).
Guénon continua con una precisazione importante: il dogma, pur essendo la parte intellettuale della religione, non lo è in maniera completa (altrimenti non sarebbe più religione, ma metafisica). 
[Il dogma] è un fenomeno dove la sentimentalità ha una parte essenziale, una specie d’inclinazione o simpatia per un’idea, ciò che d'altronde presuppone necessariamente che l’idea stessa sia concepita con una sfumatura sentimentale più o meno pronunciata. Lo stesso fattore sentimentale, secondario nella dottrina, diventa preponderante e anzi pressoché esclusivo nella morale (Ibidem).
Ora, l’unione di dogma, morale e culto non si ritrova appunto in Oriente, e perciò è opportuno, per evitare fraintendimenti, non applicare indiscriminatamente, in questo come in molti altri casi, categorie nostre alle civiltà altrui. Il secondo termine su cui voglio soffermarmi è conoscenza. Tucci la distingue dall'esperienza, accettando implicitamente il concetto di conoscenza affermatosi in età moderna. Conoscenza è in questo caso il possesso di alcunché d’esteriore, di natura logica-discorsiva o matematica, che rimane altro dal soggetto. La conoscenza è quindi un insieme di concetti tra loro concatenati la cui illustrazione e comprensione risiede nel tempo. Un concetto discorsivo è composto infatti di più parole tra loro collegate, la cui enunciazione, sia essa verbale o anche solo mentale, avviene un termine dietro l’altro. Questi termini si riferiscono poi a un alcunché di esteriore al soggetto stesso: una legge espressa in termini matematici o discorsivi non s’identifica affatto col soggetto che l’ha elaborata o con quello che la sta ripetendo. Questa conoscenza è diversa dall'esperienza di cui parla Tucci, da quel “possesso duraturo di verità eterne” che implica un’identificazione tra il soggetto e l’oggetto, il loro reciproco annullamento. Per questo Tucci scrive che nessuna teologia può garantire all'uomo un tale stato. Come dice lo stesso nome, la teologia non è altro che un discorso, un ragionamento su Dio o sulle cose divine. E, per questo, rimane qualcosa di esteriore al soggetto che la elabora. L’esperienza cui Tucci si riferisce vuole annullare questo iato. Si può tuttavia obiettare che l’esperienza di Tucci non è altro che la conoscenza suprema: l’intuizione intellettuale, il trasumanare di Dante che avviene nel momento in cui l’uomo, spogliatosi di tutto ciò ch'è transeunte, che non ha in sé la ragione della propria esistenza, s’india. Sarebbe, secondo me, importante ripristinare questo significato supremo di conoscenza nella nostra cultura, non solo per evitare fraintendimenti nel comprendere le altre civiltà (ma anche molte testimonianze che ci giungono dal nostro passato), ma anche per aprirci a un orizzonte di possibilità che, altrimenti, ci neghiamo per principio. Se infatti affermiamo che l’unico sapere ad avere validità oggettiva è quello scientifico, il sapere che si dipana nel tempo, guarderemo a tutto ciò che “pretende” di andare al di là come a un alcunché di soggettivo, come a un’esperienza personale di un individuo che alla fine è determinata da cause accidentali, quali la propria personalità irripetibile, l’educazione, gli incontri, le vicissitudini, ecc. Se, invece, si accettasse l’idea che esiste un tipo superiore di conoscenza che si situa al di là di ogni distinzione, forse sarebbe ipotizzabile che qualcuno intraprenda la strada per attingere a quella fonte eterna. Ma mi rendo conto che ciò non solo cozzerebbe con la storia intellettuale di tutta l’età moderna, ma anche con quell'egualitarismo che postula la piena accessibilità delle conoscenze a tutte le menti, se solo queste vogliano dedicarvisi (come se a tutti, per quanto tempo e sforzi facciano, fossero accessibili le discipline scientifiche più complesse, negando le naturali, palesi differenze d’inclinazioni e talenti).
Giotto, La crocifissione di Strasburgo, 1320, Musée des Beaux-Arts, Strasburgo.
Dopo questo lungo preambolo, torniamo al brano di Sri Ramana Maharshi. Alla prima domanda del discepolo Ramana risponde illustrando il significato esoterico della crocifissione. Ma che cosa s’intende con significato esoterico? Si tratta del significato interiore, spirituale, il significato che fa riferimento a quell'esperienza delle verità eterne che Tucci preclude anche alla teologia. Sia la teologia sia il catechismo sono invece il significato essoterico, le interpretazioni esteriori delle azioni compiute dalla figura di Cristo alla scopo di salvare l'umanità dal peccato originale e dalla dannazione, suo destino dopo la cacciata di Adamo dal Paradiso terrestre. Cristo, sacrificandosi morendo sulla Croce, ha espiato il peccato originale permettendo finalmente ai singoli uomini che ne seguiranno l'insegnamento di accedere alla Salvezza, al Paradiso, grazie alla loro fede e al loro retto agire. Questa narrazione è presa di solito alla lettera, e questo letteralismo esclusivo (di chiara matrice protestante) ha svilito il cristianesimo e ne ha fatto facile preda della critica razionalistica diventata un sentire diffuso, non più limitato a certi dotti come all'inizio dell'età moderna. 
La vita di Cristo è stata nei secoli l’esempio principe di condotta e di vita per l’umanità europea. Seguire le orme di Cristo è inteso però sempre esteriormente: la fede nella Sua Parola e nella sua seconda Venuta; il sentire buono, aprendosi e muovendosi verso l’altro; l’agire retto, secondo il comandamento di Cristo: ama il prossimo tuo come te stesso. Quest’esempio ha plasmato secoli di vita occidentale, e ancora oggi se ne vedono gli effetti, sia in coloro (invero pochi) che possono ancora veramente dirsi cristiani, sia in coloro cui il cristianesimo è indifferente se non odioso (e, ahimè, sono molti). La vita di Cristo, e soprattutto la Passione e la Resurrezione, possono però  essere anche intese come un esempio da ripercorrere interiormente, per, secondo l’espressione di Meister Eckhart, trovare Dio nel fondo nell'Anima, scoprire, dopo aver eliminato tutto quanto d’individuale (nome e forma, come dicono gli indù) ci ostacola, che noi stessi siamo Dio – che Ciò che rimane dopo aver scartato tutto quello che è determinato e, perciò, transeunte, non è altro che l’Assoluto al di là di ogni nome, al di là di ogni forma. Fin tanto che rimaniamo nel cristianesimo essoterico, ciascuno di noi s’identifica col proprio corpo, con la propria individualità empirica (nel duplice senso dell’esperienza interna della coscienza e dell’esperienza esterna dei sensi). Cristo ci appare - come molti dei santi che, sublimi, ne hanno seguito le orme - il paradigma cui tendere nella consapevolezza di non poterlo mai raggiungere perché ontologicamente è inteso come qualcosa di altro da noi stessi (un po’ come le idee, in Platone, sono il modello eterno e irraggiungibile che il cosmo sensibile tende incessantemente a imitare nel tempo). Una volta che si guardi alla Passione e alla Resurrezione dal punto di vista esoterico, invece, le gesta di Cristo ci appaiono come simboli del percorso interiore da percorrere per trasumanare, per raggiungere quella che nel sufismo viene chiamata l’Identità suprema, nell'induismo l’Atman, ecc.
Sigillo del Vitriol dal Viridarium Chymicum di Daniel Stolcius von Stolcenberg (Francoforte, 1624).
La crocifissione interiore, la morte dell’ego si raggiunge attraverso un lunghissimo e arduo cammino che pochi sono in grado di percorrere, e una manciata soltanto in grado di portare a termine. Il cammino comincia con quella che gli alchimisti chiamano la spoliazione dei metalli e i liberi muratori lo sgrossamento della pietra grezza. Cosa sono i metalli, cosa sono le schegge da togliere alla pietra? Sono tutte quelle cose che ci appesantiscono o, fuor di metafora, tutto quello che c’impedisce di guardare in noi e fuori di noi con animo sereno ed equanime. Concretamente possono essere, per esempio, posizioni ideologiche su determinati argomenti (etici, politici, di costume, ecc.); esperienze passate che ci spingono a incasellare gli avvenimenti in categorie fisse e rigide; l’educazione ricevuta, sia familiare sia scolastica (e quella scientifica non è uno dei metalli più leggeri di cui siamo gravati); ma anche cose più profonde e, allo stesso tempo, più quotidiane, come il carattere, che si manifesta, che so, con l’impulsività o, all'opposto, con l’abulia; ma più di tutti è l’orgoglio, che è la grande corazza dell’io empirico, il guardiano più temibile e tenace, quello che ci obnubila la vista ogni qual volta qualcosa ci chiami in causa, anche solo mettendoci in dubbio, anche solo mostrandoci quelle che sono non solo le nostre responsabilità per un agire dissennato, ma anche semplici, quotidiane debolezze, dal non volersi alzare per andare a prendere un oggetto, a non voler ammettere piccole e sciocche mancanze, come l’aver sporcato il tavolo con le briciole di pane e averlo lasciato com'è, magari ammettendo d’averlo fatto, ma accampando scuse o arrampicandosi sugli specchi per non aver preso una spugna e ripulito, vuoi per pigrizia, vuoi per l’idea di essere stoltamente al di sopra di certe faccende (non è un caso che in molti ordini monastici, sia d’Occidente sia d’Oriente, i monaci devono occuparsi dei lavori più umili). 
Questo lavoro interiore preliminare, senza il quale non si arriverà mai da nessuna parte, è assimilabile a molti dei precetti religiosi, al significato essoterico della figura di Cristo. Il cristianesimo, finanche nella sua decaduta versione moralistica, esorta all'amore dell’altro, alla comprensione di ciò che l’ha spinto all'agire, al perdono non per debolezza, ma per consapevolezza di quella somiglianza tra gli uomini che deve spingere il singolo a sorvegliare sé stesso e riconoscere anzitutto i propri peccati, che non solo non sono dissimili da quelli altrui, ma che, anzi, talvolta sono ben maggiori. Ora, quest’esercizio può scadere in un moralismo feroce, oppure in un atteggiamento condiscendente e ipocrita, spesso accompagnato da secondi fini. Tuttavia, se rettamente inteso e praticato, il cristianesimo insegna a mettere la propria individualità tra parentesi, per così dire, allo scopo di aprirsi all'altro, di aprirsi a Dio (e in questo Cristo è, ovviamente, ancora il paradigma). È una forma di contro-individualismo che per coloro che percorrono una via esoterica può sia essere propedeutica sia accompagnare la quotidianità; perché bisogna sempre stare in guardia e riconoscere l’emergere dell’Io e le sue pretese, perché, se essotericamente ciò porta a un agire egoistico e potenzialmente perturbante l’armonia del contesto in cui tale io è inserito, dal punto di vista esoterico rappresenta un ostacolo o, peggio, un’interruzione del percorso interiore. Per questo Guénon arrivò ad affermare, in un suo tanto celebre quanto discusso articolo, la necessità di seguire, per chiunque voglio intraprendere un cammino iniziatico, una forma di essoterismo tradizionale regolare.
Voglio da ultimo spendere qualche parola sulla risposta di Sri Ramana Maharshi alla seconda domanda del discepolo. Questi si pone dal punto di vista individuale, giudicando la crocifissione secondo parametri etici. Sri Ramana, invece, si pone dal punto di vista dell’Assoluto, sub specie aeternitatis. Da questo punto di vista, i parametri di giudizio propri dell’etica, per quanto corretti e sacrosanti siano nell'ambito delle vicende umane, non hanno alcun senso. Anzi, il vero  delitto è l’individuazione, “l’uccisione dell’eterna Esistenza positiva”. 
Il delitto della crocifissione, orribile se guardato con gli occhi dell’io, si dissolve quando lo si consideri dal punto di vista del Sé. Non bisogna curarsene, così come di qualsiasi atto che pertenga la sfera umana, perché ciò distrae da quell’opera di purificazione che porta l’individuo a liberarsi del proprio io e del mondo fenomenico per riconoscere e identificarsi con l’unica realtà, il Sé assoluto. 


Opere citate o utilizzate per la stesura dell'articolo:

- Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano 1994; 
- René Guénon:
  - Iniziazione e realizzazione spirituale, trad. it. Luni editrice, Milano 2011;
  - Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, trad. it. Adelphi, Milano 1989;
- L'insegnamento spirituale di Ramana Maharshi, trad. it Edizioni Mediterranee, Roma 1992;
- Giuseppe Tucci, Dei, demoni e oracoli, BEAT, Vicenza 2019.

La riproduzione della Trinità di Masaccio è stata tratta dalla Web Gallery of Art, quelle della Crocifissione di Strasburgo e del sigillo del Vitriol dagli articoli omonimi di Wikipedia.

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