Il deserto e la selva

Edward Hopper, I nottambuli (Nighthawks), 1942, Art Institute of Chicago.
Il processo di desertificazione che interessa ampie zone del pianeta si è quasi compiuto nelle regioni dello spirito occidentale. Quando e cosa abbia avviato la graduale e inesorabile scomparsa della vita spirituale dell'umanità europea è oggetto di accese discussioni da ormai più di un secolo. Discussioni complicate dal fatto che il suddetto processo non è giudicato affatto unanimemente: c'è chi lo considera la catastrofe che ha determinato, tra le altre, funeste conseguenze, le tragedie del Novecento e lo sconsiderato sfruttamento odierno delle risorse materiali del pianeta; mentre altri, invece, lo vedono come un processo di secolare liberazione dalle catene oscurantiste della superstizione. Questi ultimi, in particolare, di matrice scientistico-positivista, appiattiscono la dimensione spirituale su quella religiosa, e, per di più, su una religiosità irrazionalistica e sentimentale. Ma andiamo per ordine.

C’è chi ritiene la Riforma protestante uno dei momenti cruciali sia del progressivo inaridimento spirituale sia del formarsi dell’idea di religione che la scienza occidentale applica non solo a tutte le forme religiose presenti e passate, ma anche a quei fenomeni culturali che religioni non possono essere chiamati se non impropriamente.

Lucas Cranach il giovane, Filippo Melantone,
1559, Francoforte, Städelsches Kunstinstitut
La Riforma ha interiorizzato la religione, l’ha, cioè, ridotta a un fatto personale chiuso nella coscienza del singolo, andando progressivamente a svuotare le pratiche religiose comuni di qualunque significato, riducendole a meri segni ‘esteriori’ privi di senso ed efficacia. Ha posto l'accento sulla lettera delle Sacre scritture, rifiutando qualsivoglia interpretazione simbolica e allegorica che alludesse a una dimensione superiore, aprendo così la strada a esegesi della Bibbia che ne avrebbero col tempo messo in luce le ‘assurdità’ e le ‘contraddizioni’ rispetto alle conoscenze scientifico-razionali. Ha, infine, opposto la fede alla razionalità, la religione alla conoscenza, invece di farne una parte d'uno stesso essere e d'uno stesso cammino. Fede o ragione: quest’opposizione sarebbe diventata un leit-motiv della cultura occidentale, e sarebbe giunta fino a noi, benché ridotta a una sterile disputa accademica, avendo la religione oramai perduto, sugli uomini contemporanei, qualunque tipo d’influenza, fatta eccezione per un certo moralismo anacronistico che si rinviene ancora, perlomeno in Italia, in certi ambienti e zone del paese.

Qualunque siano le origini e le cause principali di tale processo, nell'Ottocento (secolo critico per la storia europea e globale, durante il quale esplosero e si sposarono le due potenze che avrebbero plasmato il mondo attuale. la tecnica e l'industria) poteva ormai dirsi, se non compiuto, ormai irreversibile.
Friedrich Nietzsche fu una figura quant'altre mai sintomatica dello stato spirituale della sua epoca, un uomo di genio consumato dall'angosciosa consapevolezza della fine d'un mondo e, allo stesso tempo, smaniosamente illuso di poter dar forma ai tempi nuovi. Nietzsche si rendeva conto che la scristianizzazione dell’Europa era ormai giunta a un punto di non ritorno. 
Nel celeberrimo aforisma 125 della Gaia Scienza, Nietzsche descrive la ‘Morte di Dio’ con quella che può apparire angoscia, ma che è, alla fine, uno stato d'eccitazione malata di fronte allo spettacolo della dissoluzione del cristianesimo. L’Uomo folle porta con sé una lanterna accesa in pieno giorno e urla: “Cerco Dio! Cerco Dio!” nella piazza del mercato, tra una folla che dapprima lo canzona motteggiandolo, e che, poi, ammutolisce di fronte al suo discorso ‘rivelatore’; quell'uomo folle è Nietzsche stesso. Lo chiama folle perché tale è agli occhi dei suoi contemporanei, ignari del ‘delitto’ che hanno compiuto. Ma, in realtà, ne fa un ispirato, un profeta (“Vengo troppo presto”, afferma a un certo punto) che vede, a differenza dei suoi contemporanei, chiaro nel presente e lontano nel futuro. In questa consapevolezza (parziale, bisogna aggiungere: gli europei non hanno ucciso Dio - il divino, l’hanno soltanto estromesso dalle loro vite), e nella caparbietà con cui cerca di trarne tutte le conseguenze per l’umanità occidentale, sta la grandezza di Nietzsche e la sua importanza storica. Ma quando cerca d’andare oltre, la sua figura (e di tutti quelli che l’avrebbero seguito o emulato) si ridimensiona radicalmente. Dopo aver annunciato la presunta morte di Dio e dopo aver indagato acutamente le inconsapevoli ipocrisie dell’Occidente, Nietzsche, soprattutto con Così parlò Zarathustra, si fa apostolo del presunto ‘nuovo mondo’, del presunto, nuovo ordine in cui l'uomo prende il posto di Dio (un uomo nuovo per cui utilizza il tanto pomposo quanto risibile termine di Übermensch), d’un uomo che assumerebbe su di sé il fardello di plasmare non solo il proprio destino materiale, ma anche la propria dimensione spirituale. Il risultato di tanta infantile hybris fu, va da sé, patetico e ridicolo. Come lo sarebbero stati tutti quei tentativi novecenteschi di ‘fondare’ la vita umana a partire dall’uomo, senza poggiarla sulle uniche basi solide possibili, le basi che trascendono l'individuale per radicarsi nel divino.

L’esito di questa plurisecolare devastazione è l’uomo contemporaneo, questa tronfia, tracotante e lamentosa creatura che s’agita istericamente lungo tutto l’arco della sua lunga esistenza, senza che essa prenda una qualsivoglia direzione, senza che sia vivificata da un principio superiore, senza che ne venga illuminata e ordinata. A peggiorare questa già drammatica condizione è quello per cui gli uomini odierni si dannano: oggetti futili che li interessano lo spazio d’un mattino; attività sciocche, fatue ed effimere, che mantengono la loro attenzione fissa sull'accidentale o, peggio, li gonfiano follemente, imprigionandoli in un egocentrismo tanto pernicioso quanto ridicolo. Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris: se di tanto in tanto gli occidentali si rammentassero di quest’antica massima, forse s’accorgerebbero di quanto sia puerile dare e pretendere dagli altri tanta importanza a una forma instabile destinata a dissolversi nell'oceano del tutto.

Il deserto è l’immagine che riesce più icasticamente a rendere l’idea dello stato dello spirito degli occidentali e del paesaggio in cui si muovono. Dopo aver fatto tabula rasa di tutto quanto c’era di spirituale (quindi di ciò che trae la sua linfa dalla natura delle cose e, perciò, ha consistenza ontologica al di là dei tempi e delle mode) nella nostra tradizione, all'Occidente non rimane che quello che esso stesso produce: forme illusorie e transeunti, che nell'ultimo quarto di secolo rivestono ormai soltanto i panni d’oggetti materiali o di attività legate alla corporeità e alla sua esibizione.
Umberto Boccioni, Dinamismo di un calciatore,
 1913, New York, Museum of Modern Arts.

Coloro che ritengono lo stato spirituale del mondo contemporaneo una conquista per l’umanità, citano spesso la teoria del ‘disincantamento del mondo’. Fu Max Weber, in una sua celebre conferenza dal titolo La scienza come professione, a formularla per primo. Da allora, la teoria e l'espressione che la indicano sono entrate nel gergo filosofico e intellettuale dell’Occidente. Weber riteneva che la scienza avesse privato il mondo del suo ‘incanto’: in natura “non sono in gioco, in linea di principio, delle forze misteriose e imprevedibili, ma che si può invece - in linea di principio - dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale” (le sottolineature sono nel testo). Al di là della tracotanza (che Weber condivide con buona parte dei pensatori e degli uomini moderni), di notevole in queste parole c’è la rappresentazione di quello che scienza non è: nel mondo moderno, la religione, ritenuta, come ho già riportato sopra, un sistema di credenze poggiate soltanto su una fede che, con la sua presunta assurdità (il tertullianeo credo quia absurdum è stato più volte evocato dagli avversari della religione, ma anche da una parte dei suoi difensori, come sua unica, possibile ‘giustificazione’), s’opporrebbe recisamente alla scienza e alla ragione, di cui la prima sarebbe l’unica rappresentante legittima; nel passato dell’Occidente e nel presente di altre culture (ormai, in questo primo quarto del XXI secolo, sempre più sparute), a visioni del mondo ‘magiche’ e ‘animistiche’. È stata la ragione, insomma, ad aver desertificato il mondo. Ma l’avrebbe fatto per amore della verità, non per un nichilistico desiderio di devastazione. Perseguire il vero a tutti i costi avrebbe portato a togliere il velo alla natura delle cose: un mondo opaco, retto da leggi esprimibili in termini matematico-razionali, privo intrinsecamente di qualsivoglia valore, perché la dimensione valoriale non solo apparterrebbe unicamente all'uomo, ma anche alla sua mera parte emotiva e, quindi, irrazionale. Cogli gli occhi finalmente aperti, caduto anche l’ultimo velo della religione cristiana (religione che, manco a dirlo, da molti occidentali è ritenuta la più ‘elevata’ tra tutte quelle che si sono susseguite nella storia dell’umanità), l’uomo finalmente avrebbe preso coscienza di poter contare soltanto su sé stesso, e che il cosmo non avrebbe senso alcuno se non quello che egli stesso gli attribuirebbe.

Fa parte della forma mentis degli occidentali generalizzare la propria storia e i propri modi di pensiero e di vita. A tutt'oggi, in un’epoca in cui la ricerca storiografica s’è fatta più raffinata liberandosi di parte delle ipoteche ottocentesche (dico di parte, perché al fondo delle ricerche storiografiche sta un assunto teorico pesante come un macigno: l’uomo è un essere storico, e tutte le sue manifestazioni possono essere spiegate attraverso l’indagine degli eventi storici. Accanto a questo ce n’è un altro, di assunto, almeno nella storiografia positivistica contemporanea, ma non solo: l’antropologia filosofica naturalistica, ossia l’idea che l’uomo sia un fenomeno naturale come tutti gli altri, pur avendo peculiarità che, per adesso, non sono state rinvenute altrove), tutt'ora non è raro imbattersi in chi guarda al passato delle altre culture applicandovi categorie che sono valide soltanto per la nostra storia. Sentiremo allora uomini di cultura, per non citare che un esempio grossolano, parlare di un medioevo islamico, cinese, giapponese ecc. e altre simili amenità. A maggior ragione gli occidentali credono che il loro presente sia il presente dell’umanità, che le forme che ha assunto la loro esistenza siano quelle dell’esistenza umana, che ciò che hanno raggiunto e ciò di cui fanno esperienza non siano un episodio della proteiforme manifestazione dell’umanità sulla terra, ma ne siano il culmine. Se gli occidentali vivono in un deserto valoriale e spirituale, significa che l’umanità stessa ci vive, e chi ancora creda altrimenti gode della beata ignoranza della fanciullezza.

Ma ecco il punto: sono gli occidentali che si sono ritrovati a vivere in un deserto (vivono e si vantano di viverci, oppure se ne lamentano, ma, allo stesso tempo, vorrebbero che gli altri popoli, ignoranti e retrivi, vi fossero elevati), non l’Uomo. Le passate e presenti diverse esperienze dell’umanità non sono uno stadio sorpassato o retrogrado. Sono esperienze cui gli occidentali dovrebbero guardare (se non l’Occidente nel suo complesso, civiltà ormai spiritualmente spacciata, almeno quei singoli che sentono qualcosa loro mancare) per imparare a vedere che ci potrebbe essere un’altra via, che quel deserto in cui si muovono potrebbe essere un miraggio creato dalla degenerazione della loro civiltà, non la rappresentazione della natura delle cose. Una volta consapevoli che quel deserto non è la condizione dell’uomo, ma solo dell’uomo occidentale, forse si renderebbero conto che la rappresentazione più corretta del paesaggio spirituale in cui un uomo smarrito si muove è la selva.

Perché la selva? E in cosa la si può considerare come opposta al deserto? 
A tutti è più o meno familiare la natura di una selva: un luogo dove alberi e altri tipi di piante nascono e si sviluppano spontaneamente, senza l’intervento dell’uomo. La vegetazione è fitta, in alcuni tratti a tal punto da impedire al viandante di passare, il terreno sdrucciolevole, i sentieri infidi e la luce fioca. Oscurità, ostacolo, pericolo: queste sono le caratteristiche che richiama alla mente una selva. Trovarcisi soli può essere pericoloso, perfino fatale, se non si conosce la via per uscirne, se ci siamo smarriti al suo interno.
Anche il deserto è un luogo pericoloso, ma, a differenza della selva, è un luogo morto. Nulla vi cresce. Pochi e perlopiù spaventosi sono gli esseri viventi che lo popolano. Non c’è nulla da scoprirvi: dovunque si volga lo sguardo, tutto è desolazione e piattezza. La luce abbacinante che ci consuma ha già tutto consumato. Non c’è nulla da rivelare: la mente può soltanto essere ingannata, e l’animo attaccarsi a quelle false immagini, lasciarsi avvincere da illusorie speranze.
La selva, invece, pullula di vita. La morte sembra esservi bandita. Ovunque nuove forme si mostrano alla vista. Ci si può smarrire, ma non se ne può rimanere ingannati. Il pericolo è percepito subito, e sappiamo che si può uscirne soltanto con una guida.
Gustave Doré, Dante nella Selva, 1861.

La più famosa selva della cultura occidentale è sicuramente quella con cui si apre la Divina commedia, quella selva oscura in cui Dante si smarrisce alla metà della sua esistenza terrena. Dante ne esce grazie all’aiuto di Virgilio, che gli farà da guida nella discesa all’Inferno e nella risalita della montagna del Purgatorio, fino alle soglie del Paradiso terrestre. Lì troverà Beatrice, che lo accompagnerà nella sua ascesa fino all’Empireo, dove incontrerà la sua ultima guida, San Bernardo di Chiaravalle.
È noto che Virgilio è, nel poema dantesco, la figura della ragione umana, di quella facoltà naturale comune a tutti gli uomini, cristiani, pagani o infedeli che siano. E, tuttavia, benché quella facoltà, essendo propria di tutti gli esseri umani, fosse presente in Dante, egli si smarrisce comunque. Perché quella facoltà torni a fargli da guida, ha bisogno d’un intervento esterno, d’un alcunché che lo indirizzi, che lo rimetta sulla retta via. Per tornare a fare un corretto uso della ragione, c’è bisogno di qualcosa che le sia, se non necessariamente più elevato, d’esterno, d’un impulso che venga dal di fuori

La via è perduta definitivamente, invece, per coloro che credono di poterla trovare solo con le proprie forze, una sorta di autarchia spirituale spinta da un orgoglio veramente luciferino, un individualismo conoscitivo ed esistenziale che destina chi ne è dominato, come l'angelo biblico, inesorabilmente alla caduta.


[Friedrich Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, Milano 1999, aforisma 125, pp. 162-164. La citazione di Weber è tratta da Max Weber, La scienza come professione - La politica come professione, Edizioni di Comunità, Milano 2002, p. 17. Il dipinto di Hopper è tratto dall'articolo Edward Hopper dell'edizione italiana di Wikipedia; l'illustrazione di Doré della Divina commedia è tratta dall'articolo Gustave Doré della versione italiana di Wikipedia; il dipinto di Boccioni dall'articolo Opere di Umberto Boccioni della versione italiana di Wikipedia]

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