Ferreri: Dillinger è morto

La locandina del film, uscito nel 1968.
Dillinger è morto, uno dei capolavori di Marco Ferreri, si apre con una scena che si svolge sul posto di lavoro del protagonista, l'ingegnere Glauco. Qui, dopo aver svolto una prova sull'efficacia di una maschera antigas progettata dal protagonista, un collega legge a Glauco uno scritto che tratta dello stato dell'uomo contemporaneo. Glauco s'annoia visibilmente: prima apre una rivista francese di equipaggiamenti militari e comincia a scuoterla per attrarre l'attenzione del collega. Poi, visto che quest'ultimo non si rende conto che lo sta tediando, estrae di tasca il cipollone e lo fa oscillare di fronte al volto del collega, che finalmente lo nota e capisce che è ormai ora di lasciare l'ufficio. 
La sequenza d'apertura è fondamentale per comprendere il film. Non tanto, a parer mio, perché sia una sorta di dichiarazione d'intenti del regista, che metterebbe in bocca a un personaggio marginale la sintesi della critica che poi svolgerà nella pellicola; quanto per inquadrare subito il protagonista. Glauco è tediato dai discorsi del collega. Non gliene importa nulla, non lo riguardano, non li sente. E questo pare inficiare proprio il ragionamento del collega, che a un certo punto afferma che l'uomo contemporaneo è conscio di portare una maschera per sopravvivere all'ambiente asfissiante in cui è immerso. Glauco non lo è. Glauco non porta una maschera. Ed è questo, secondo me, uno dei punti centrali dell'intero film: l'uomo contemporaneo non porta maschere. Al di sotto della sua meschina quotidianità, irrequieta e affaccendata, non c'è altro se non quella miseria che si vede.
La superba interpretazione di Michel Piccoli ci restituisce un individuo sprofondato in oggetti che non sono feticci, ma trastulli, coi quali l'uomo s'intrattiene, vuoto e annoiato. Passa da un oggetto all'altro, dalla cucina al proiettore, dalla pistola alla cameriera, senza provar vero godimento perché quegli oggetti non hanno alcun valore né "individualità", hanno perso la loro destinazione d'uso, non hanno più significato come oggetti singoli. Sono tutti uguali e hanno lo stesso scopo: quello d'intrattenere per un attimo il loro possessore che, incapace di goderne, passa velocemente oltre (anche la cameriera rientra nella categoria di questi oggetti grigi: pur essendo bella e provocante, per Glauco è priva di carica erotica, ridotta alla stregua d'un proiettore o d'un coltello da cucina). La realtà è appiattita dalla dinamica del desiderio moderna, in cui l'animo dell'uomo, piatto e scialbo, desidera stancamente ma senza posa, poiché non riesce a trovar pace perché tutto è ugualmente privo di senso.


Glauco s'accinge a uccidere la moglie addormentata, che non s'accorge di nulla perché stordita dai sonniferi.
Una delle sequenze famose del film è l'omicidio della moglie, che all'epoca colpì per la sua apparente gratuità. Ed è proprio questo il punto, la gratuità dell'azione: non è un atto spinto dall'inconscio per evadere, per fuggire dalla quotidianità soffocante illustrata dal collega all'inizio della pellicola (perlomeno non mi pare che così traspaia dall'interpretazione di Piccoli: la pellicola avrebbe anche potuto avere quel significato, ma mi sembra che l'attore francese l'abbia interpretata diversamente). Non è, insomma, un modo per fuggire dalla quotidianità alternativo al suicidio (e i suicidi mimati sembrano atti simili a quelli di ragazzini che scimmiottino sequenze viste al cinema o in televisione), ma un gesto che ha lo stesso valore delle boccacce di fronte ai filmini delle vacanze. Glauco alza il volume della radio per non farsi sentire (un atto "ragionevole" per chi si appresti a compiere un omicidio e non voglia esser subito scoperto) e mette due cuscini sopra la testa della moglie addormentata. Ma i cuscini servono, più che per attenuare il botto, per render meno reale il gesto, per non confrontarsi col corpo di lei (non si vede il sangue, ma solo le braccia che si contraggono e poi s'afflosciano), per lasciare l'atto in una dimensione di "trastullo", ossia laddove i gesti sono tutti uguali, appiattiti come le cose di cui è circondato. E dopo l'omicidio, cosa fa? La valigia e, invece di fuggire subito, accende il giradischi. Indugia annoiato, cioè, come la sera prima, quando passa dalla cucina al soggiorno, dai fornelli alla televisione al proiettore. In quest'ottica si potrebbe interpretare anche la scena finale: la nave che, casualmente, lo porta a Tahiti, non corrisponde al desiderio di fuga dalla realtà che lo opprime o dall'omicidio della moglie (nessun sentimento di colpa o paura traspare sul volto di Glauco). Si tratta d'un nuovo spostamento dell'attenzione, della ricerca d'un nuovo intrattenimento, stavolta mascherato dalla fuga e dal radicale cambiamento di vita (da ingegnere in Italia a cuoco su una barca che lo porta a Tahiti). Come dire: la fuga e il fascino dell'esotico, così in voga negli anni Sessanta, non sono altro che abili camuffamenti della dinamica del desiderio. Nuovi trastulli, nuovi intrattenimenti di animi vuoti e nichilisti che s'illudono di cambiar vita, quando in realtà non stanno che passando a un altro oggetto, il quale ha il medesimo valore - nessuno - di quelli che prima acquistavano senza sosta nei negozi delle loro opulente città occidentali.

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