Homo errans

Per caratterizzare la condizione umana, nel Medioevo era usata la figura dell'homo viator: un viandante, un viaggiatore in cammino verso la sua vera Patria, la Patria celeste. In esilio su questa terra, separato dal Padre, ogni individuo doveva imboccare la strada per ricongiungersi a Lui. Il cammino era irto di pericoli: in ogni momento l'uomo medievale rischiava la perdizione. Le forze che tentavano di sviarlo erano potenti, e si manifestavano in forme innumerevoli. In nessun attimo della sua esistenza poteva dirsi al sicuro. E avanzare sicuri, certi della propria purezza ed elezione, significava anzi essere più vicini alla dannazione. Umiltà, contrizione, vigilanza e pentimento continui: ecco quello che era necessario perché l'uomo si salvasse, perché non si smarrisse nella selva oscura narrata da Dante, disperando di raggiungere mai la sommità di quel colle dove l'uomo poteva dirsi salvo tra le braccia del Padre celeste.
Una tale visione della vita caricava l'animo d'un fardello arduo da sopportare. Proprio alla fine di quel mondo, uno dei grandi pittori della storia europea rappresentò nella maniera più icastica e variegata il terrore e la speranza che agitavano gli uomini del medioevo.

Hieronymus Bosch, Trittico del carro del fieno (ante chiuse),
1516, Madrid, Museo del Prado.
In quest'opera Hieronimus Bosch rappresenta l'uomo come un viandante in cammino, gravato da un peso che lo incurvava a tal punto da rendere il suo incedere incerto e traballante. Questo vecchio, costretto a sorreggersi con un bastone per non crollare a terra esausto, attraversa un paesaggio irto di pericoli, talvolta celati dietro a sembianze leggiadre e amabili. Non a caso una delle opere più famose di Bosch è intitolata il Giardino delle delizie, dove rappresenta, con stupefacente fantasia e copia di dettagli degna della grande tradizione pittorica nordica, la stolidità degli uomini abbandonatisi ai meri piaceri carnali, e le tremende conseguenze che li attendono dopo la morte della carne: un'eternità di sofferenze.

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie, 1500, Madrid, Museo del Prado.
Oggi è difficile immaginare il terrore e l'angoscia che ispiravano i dipinti di Bosch o le terzine della Divina Commedia. Nel nostro tempo, pienamente mondano, del tutto immanente alla realtà sensibile, alla vita naturale, neppure dalla bocca degli uomini di chiesa si sente più parlare delle conseguenze nefaste che le nostre azioni peccaminose avranno nella vita ultraterrena. Ma per gli uomini del Medioevo quelle conseguenze erano reali, e ingeneravano un timore che s'accresceva sino a diventare terrore paralizzante quando venivano loro vividamente rappresentate da predicatori, scrittori e artisti capaci. Per questo molti, dopo una vita sconsiderata, dedita ai meri piaceri mondani, abbandonavano tutto per salvarsi, per sperare di scorgere, alla fine del cammino, quell'abbacinante luce che dava loro la certezza definitiva d'esser salvi, d'esser tornati, dopo lungo e periglioso esilio, a casa, nella Patria celeste.

Hieronymus Bosch, L'ascesa dei beati all'Empireo,
1500-04, Venezia, Palazzo Ducale
L'homo viator ha terminato il suo cammino. L'anima, il suo vero sé, s'è spogliata del pesante guscio della carne e può ascendere al Cielo, dove troverà quella beatitudine eterna, ricompensa della fede, della giustizia e della carità che l'hanno guidato durante il travagliato cammino della vita terrena.
La vita era gravosa, dunque. Alle quotidiane pene del corpo s'aggiungevano quelle d'un animo angustiato da una fede difficile ed esigente. Il cammino era tortuoso e irto di pericoli, e stretta la porta per la salvezza. Ma c'era un cammino, c'era un sentiero da seguire per tutti coloro che volessero intraprenderlo, per tutti coloro che, consci della vanità delle brame che agitano la vita quotidiana, si fossero finalmente decisi ad andare incontro alla salvezza. Un cammino per tutti, tracciato da quel Dio misericordioso che gli uomini non cessavano mai d'invocare durante le loro penose veglie.

L'età moderna si apre con un atto radicale, senza precedenti. Cartesio, da poco uscito dal convento gesuita di La Flèche, ci racconta come decise di trovare, col mero ausilio delle sue forze, il cammino che lo conducesse alla conoscenza e alla verità. Questo comportò di revocare tutto in dubbio. Non solo liquidò le conoscenze accumulate nei secoli passati, ma perfino le testimonianze dei sensi, quel mondo in cui pulsa e si svolge la vita di ognuno.
Quello di Cartesio fu il primo atto nichilista della storia europea. Non che così fosse nelle intenzioni di chi lo compì. Cartesio era spinto da un sincero desiderio di conoscere, ed era, come la maggior parte dei migliori filosofi e scienziati del suo tempo, un sincero credente. Ma ciò non toglie che alla base della sua ricerca della verità ci fu un atto di radicale negazione, come mai s'era visto prima nella storia occidentale.
Nel Discorso sul metodo torna l'immagine della selva. Ma quanto è diversa da quella di Dante! All'inizio della Divina commedia troviamo il Dante personaggio smarrito in una cupa foresta. D'improvviso scorge un'altura, un colle avvolto dai raggi del sole. La speranza gli risorge in petto, e s'affretta verso di esso. Ma nel suo cammino incontra tre bestie feroci che gli sbarrano la strada, ricacciandolo nella selva. Disperando ormai per la sua salvezza, ecco che gli arriva in aiuto, imprevisto e inatteso, Virgilio, inviato dal cielo in suo soccorso. Senza di esso, Dante non sarebbe mai riuscito a uscire dalla selva con le sue sole forze. L'uomo medievale credeva di poter raggiungere la verità e la salvezza, ma non da solo. Se abbandonato a sé stesso, sarebbe inevitabilmente finito nell'errore e, quindi, nella dannazione (nel Medioevo conoscenza, verità e salvezza erano strettamente legate tra loro; e il collante era la fede, quel fiducioso abbandono a Dio che illuminava e rinfrancava durante il periglioso cammino della vita).
Nella seconda parte del Discorso sul metodo, Cartesio illustra la sua morale provvisoria, quelle regole di condotta temporanee che ha intenzione di seguire finché non avrà trovato la verità. La seconda massima suggerisce di seguire con costanza il cammino intrapreso, non importa che esso sia dubbio, poiché tutto, non ancora rischiarato dalla luce della ragione, lo è. Alla fine, mantenendosi sul sentiero imboccato, il viandante arriverà pure da qualche parte, "dove verosimilmente si troverà meglio che nel mezzo di una foresta." Anche Cartesio, dunque, concepisce l'uomo come smarrito in una foresta, senza bussola, senza indicazioni precise su come poterne uscire. Ma la drammaticità di Dante è assente. Cartesio confida nella ragione per uscirne. Il dubbio e l'incertezza sono soltanto temporanei. Prima o poi l'uomo riuscirà a uscirne con le sue sole forze.
La fiducia di Cartesio nelle capacità conoscitive umane ha informato non solo un'epoca, ma un'intera civiltà. Nell'ultima parte della Discorso (il vero manifesto dell'età moderna) è persuaso che le nuove conoscenze aiuteranno a migliorare la condizione dell'uomo su questa terra. Cartesio, pur sincero credente, nelle sue opere non è per nulla interessato all'anima dell'uomo nella sua concretezza individuale (la res cogitans, come tutte le anime immortali dei filosofi, è la medesima per tutta la specie e pare più un garante epistemologico della conoscenza che il nocciolo della persona umana). E' per questo che la sua opera non fu accolta dalle autorità ecclesiastiche con quel favore che egli aveva auspicato. Non c'è traccia di fede, nelle sue opere. E non c'è, soprattutto, traccia di Dio. A meno che non si voglia chiamare Dio quel mero garante della certezza della conoscenza e della stabilità della realtà sensibile.
Il nichilismo latente in Cartesio appare chiarissimo nella sua mancanza d'interesse per il travaglio della coscienza del singolo, per l'assenza del singolo, della sua formazione, della sua guida, del suo bisogno di conforto e di rassicurazione. Egli è di fronte alla vita come il professor Tulp e il suo uditorio sono di fronte alla morte: freddo, indifferente, soltanto interessato a cogliere il funzionamento del meccanismo, senza curarsi della vita concreta che pulsa nelle vene di ciascuno.

Rembrandt, La lezione d'anatomia del professor Tulp, 1632, L'Aia, Mauritshuis.
Attorno al cadavere dissecato dal professor Tulp, si vedono soltanto volti interessati a comprendere l'anatomia dell'Uomo. Nessuno si cura di quell'uomo che viene smembrato, nessuno si chiede quale siano stati la sua esistenza, i pensieri, gli atti, le emozioni, quello che ha lasciato, quello che è rimasto di lui. Nessuno soprattutto si cura di quel concreto e tangibile memento mori che i presenti hanno sotto gli occhi (e il naso). Solo i muscoli, i tendini, le arterie, le vene, le ossa sono importanti. Questo atteggiamento è, va da sé, indispensabile per fare scienza. Se lo scienziato si perdesse in meditazioni filosofiche e religiose, oltre che cessare d'essere uno scienziato, non combinerebbe mai nulla.

Il 7 novembre 1917, Max Weber tenne a Monaco di Baviera una conferenza dal titolo La scienza come professione (in tedesco Beruf, che significa anche vocazione, quasi a sottolineare la natura non volontaria della scelta fatta). In quella celebre occasione, mentre in Europa infuriava la Prima guerra mondiale, Weber giunse a delineare quello che per lui era lo scopo del mestiere di scienziato: non dire cosa fare, non indicare fini, non propagandare valori, ma aiutare a sviscerare le varie posizioni, a "costringere l'individuo, o perlomeno aiutarlo, a rendersi conto del senso ultimo del suo operare". Weber prosegue rivendicando l'importanza di questo compito, arrivando anche ad affermare che l'uomo di scienza, così facendo, agisce eticamente: adempie al dovere di promuovere la chiarezza, la lucidità e la responsabilità del singolo di fronte alle proprie scelte. La scienza, insomma, è un'attività analitica che non si propone di fornire significati e fini. Il suo scopo è quello di chiarificare situazioni, descrivere e spiegare processi per mettere gli uomini nella condizione di scegliere e agire con consapevolezza ed efficacia.
Questa visione della scienza, di là dalle implicazioni morali presenti nel processo stesso di ricerca (scelta degli obiettivi, concreta applicazione dei metodi ecc.), non solo può essere condivisa, ma pare anche auspicabile per il progresso della scienza stessa. Il problema non è, dunque, la scienza come attività indipendente, dai confini e gli scopi ben definiti. Il problema è il suo ruolo nella cultura contemporanea, il primato che le è assegnato. Poco male, anzi, se si trattasse soltanto d'un primato. Nell'età contemporanea la scienza è percepita come l'unica attività conoscitiva degna di questo nome. E qui cominciano i dolori.
Se la scienza è l'unica attività conoscitiva degna di tal nome, ecco che ci ritroviamo privi d'un discorso che vada al di là della mera analisi delle cose volta a scoprirne i meccanismi (o a ridurla a schemi). Un discorso che ci dica come sia connesso il mondo nel suo intimo, che c'indichi una via da percorrere, che dia un senso al nostro agire e al nostro patire quotidiano. Un discorso che sia volto a individuare il senso o, per dirla alla "vecchia" maniera aristotelica, non si limiti alla mera causa efficiente, ma torni a occuparsi della causa finale, della qualità, quindi della perseguibilità o meno d'un fine, della sua dignità, del suo valore.
I discorsi sono di molti tipi. Non c'è soltanto quello razionale, quello disperatamente attaccato al logos, alla possibilità di render ragione di tutto. C'è la fede. Ci sono le fedi. Le religioni richiedono un atto d'abbandono, una primitiva fiducia nella verità del loro messaggio. Ma è proprio questo che è venuto meno in Europa negli ultimi secoli: la spontanea, fiduciosa aderenza al dettato della fede cristiana, in qualunque confessione essa sia declinata. E' venuta meno non per un atto volontario di singoli abiuranti, una sorta d'abbandono di massa. E' venuta meno perché l'humus dove la fede del singolo germoglia è andato via via impoverendosi, fino a farsi quella polvere che vediamo oggi.
Ammaliato dalla potenza predittiva delle scienze, incantato dai prodigi della tecnica, rassicurato dai miracoli della medicina, l'uomo occidentale vaga ansioso e affrettato all'interno d'un mondo scientificamente organizzato, ripetendo meccanicamente gesti e desiderando ardentemente oggetti spinto dalla pura brama di possederne di nuovi. Ecco l'homo errans, un uomo che si volge senza a sosta a destra e a manca, che, nell'opprimente e forsennata routine di lavoratore occidentale, cerca disperatamente quella pienezza di vita che non riesce mai a ottenere, fluttuante com'è nel vuoto spirituale lasciato dallo svuotamento del cristianesimo. A quest'uomo, non all'uomo tout court, calza a pennello la terribile descrizione della condizione umana che troviamo nel Canto notturno di Leopardi:

Vecchierel bianco, infermo, 
Mezzo vestito e scalzo, 
Con gravissimo fascio in su le spalle, 
Per montagna e per valle, 
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, 
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa 
L'ora, e quando poi gela, 
Corre via, corre, anela, 
Varca torrenti e stagni, 
Cade, risorge, e più e più s'affretta, 
Senza posa o ristoro, 
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva 
Colà dove la via 
E dove il tanto affaticar fu volto: 
Abisso orrido, immenso, 
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.

Meno infermo nel corpo (ma più malato nell'animo), meno gravato da pesi fisici (ma oppresso da fardelli morali), l'uomo contemporaneo vaga agitandosi finché non giunge a quell'immenso abisso che d'improvviso gli si para davanti. Un oscuro vuoto di cui non sa rendere ragione, perché non lo può analizzare, non lo può misurare, non può sviscerarne le dinamiche. Durante la vita l'aveva rimosso, relegandolo fuori dal discorso scientifico, l'unico degno d'esser portato avanti da uomini razionali ed evoluti. Perché con la morte finisce la vita, finisce il processo, finisce l'indagabile. Tutt'al più ci si potrà concentrare sui processi di decomposizione del cadavere, perché quella ancora è vita, sebbene non più la nostra, ma quella di minuscoli esserini che prosperano sulle nostre carni che vanno imputridendosi. Ma non si potrà dire di più.


[Tutte le immagini sono tratte dalla Web Gallery of Art; per l'interpretazione della pittura di Bosch: Tutti i dipinti, a cura di Walter Bosing, Taschen, Colonia ecc. 2001; per le citazioni di Cartesio: Discorso sul metodo, Laterza, Roma-Bari 1998; per quelle di Weber: La scienza come professione. La politica come professione, Edizioni di comunità, Torino 2001]

Commenti

  1. Forse sarò il primo ed unico a commentare il tuo primo post di questo Blog... Il tuo monologo tenta di risalire da un passato obliato dal tempo al nostro presente, ma mi permetto di fare una considerazione:

    La foresta di Dante, con tutto il suo apparato simbolico, è stato ben analizzato da Guènon nel suo "l'esoterismo di Dante" ed anche se le critiche forse sono ben meritate (l'autorità di Renè non è una prova a sostegno delle sue teorie) ci sono alcuni passi che solo un cieco potrebbe rifiutare: tutti noi nasciamo nelle tenebre della Selva, nessuno escluso... E' solo con un processo di cambiamento e trasformazione che l'uomo può uscire da quel labirinto di rovi, ma quale trasformazione ci offre il mondo moderno? Una iniezione al botulino? Una dieta dimagrante? Un cambio di Look per apparire più alla moda? Cambiare sesso?

    Forse non è nella mancanza di modelli positivi che l'uomo erra nel mondo, ma grazie ad una sovrabbondanza di modelli altamente negativi di cui lo circonda il mondo moderno.

    Ancora oggi alcuni uomini sono come pellegrini, consci che mai arriveranno alla meta proposta, ma, armati di bastone, puntano dritto a quella stella che si intuisce, non si spiega...
    Perchè l'essenza va oltre la forma, e le parole sono forma, Emanuele: quelle parlate e quelle scritte, quelle gridate ed anche quelle di questo Blog...è inevitabile una perdita di valore del soggetto indicato, se questo non è riducibile ad una sostanziale forma.

    Spero che anche tu possa un giorno intravederla e seguirla con tutto te stesso.

    Gor

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  2. Caro Gor, grazie per il tuo commento e per aver così velocemente rotto il ghiaccio. Spero sia di buon auspicio.
    Per quanto riguarda Guénon, non posso pronunciarmi: non ho mai letto il suo celebre scritto su Dante. So soltanto che suscitò la violenta reazione di Umberto Eco, che ne criticò l'assenza di scientificità (ma ciò è proprio, immagino, quello che Guénon si proponeva).
    Il problema della contemporaneità non è tanto, a parer mio, l'assenza di guide che conducano il singolo fuori dalla selva: è la mancanza stessa della selva. Se proprio debbo pensare a un luogo, mi viene in mente soltanto il deserto. Un deserto pullulante come non mai di miraggi, evanescenti e allettanti figure che, una volta raggiuntele, svaniscono nel disperato abbraccio con cui si cerca di cingerle. Prima bisogna uscire dal deserto, tornare alla vita, anche nella sua inquietante e smarrente forma d'una foresta impenetrabile. Poi si può sperare di scorgere di lontano il colle, e iniziare il tortuoso cammino per raggiungerlo e salvarsi. Finché si rimane nel deserto, non c'è nulla da raggiungere, non c'è nulla da salvare.

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